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domenica 19 giugno 2011

Storico ritorno: Bitto a Venezia (per il 25° di Slow Food)

Protagonista di importanti eventi Slow tra la Toscana e l'Emilia-Romagna  il Bitto storico nel giorno del 25° sarà presente nel cuore di Venezia a Campo San Bartolomeo. Una presenza che vuole rinnovare gli storici legami tra il Bitto e la Serenissima

Un anno importante per il Bitto storico, protagonista di numerosi eventi Slow che culmineranno con una presenza di assoluto rilievo a Cheese il prossimo settembre a Bra. Ma non solo.

Nelle celebrazioni del 25° di Slow Food il Bitto storico è un ospite d'onore, un fatto che sottolinea il suo ruolo di emblema di una 'resistenza casearia' che incarna il senso delle battaglie intraprese da Slow Food . Battaglie che, oramai, non influenzano solo il costume gastronomico ma puntano a incidere 'nel vivo', ossia sui fatti agricoli. Volere un cibo buono, pulito e giusto sulla tavola significa essere disposti a partecipare a conflitti che  hanno per protagonisti i campi o, come nel nostro caso, i pascoli. Non viene spontaneo pensare ai pascoli da questo punto di vista.

Alpeggi come trincea avanzata del conflitto per il cibo buono, pulito e giusto

Eppure il conflitto che divide l'agricoltura non passa solo dalle lande rese squallide dalle monocolture e dall'uso dei pesticidi; passa anche per i pascoli d'alpeggio, là a 2.000 m. Spiace disilludere chi ritiene gli alpeggi rappresentino (solo) l'ultima ridotta di una alpicoltura eroica, ma il conflittotra le opposte visioni: quella agroindustriale e quella (neo)contadina, interessa anche queste realtà. Anche qui si vogliono applicare le stesse logiche: l'uso del mangime che 'disaccoppia' alimentazione animale e produzione foraggera, uso delle bustine di fermenti liofilizzati fornite dalle industrie che, aggiunte al latte, 'riducono la probabilità di difetti' ma con la certezza che il gusto venga 'addomesticato'. Un gusto 'selvatico' è troppo sovversivo. Consente di fare esperienza di qualcosa di non omologato, di avere dei riferimenti, dei termini di paragone. L'industrializzazione quindi ha messo le mani anche sugli alpeggi, sui caseifici delle 'malghe', dove capita di vedere aggiunto al latte anche il Lisozima (antibiotico 'naturale').
I ribelli del Bitto riuniti nel Presidio del Bitto storico si oppongono a tutto ciò. E quello che fanno ha un grande valore perché, contestando la logica industriale laddove appare più assurda la sua applicazione, diventa possibile innescare un'inversione di tendenza. Sono tra i pochi che, grazie a una serie di circostanze favorevoli, hanno avuto il coraggio di ribellarsi al 'sistema'. E la loro ribellione è di grande incoraggiamento e stimolo.


Il Bitto a Venezia: una presenza piena di significati

Nel giorno delle celebrazioni del 25° di Slow Food il Bitto storico è stato invitato a Venezia. Sarà presente in Campo San Bartolomeo con la Condotta Silver. Ai veneziani (e ai turisti) sarà data la possibilità di conoscere (anche attraverso le degustazioni) questo prodotto straordinario. Un fatto che va letto non solo alla luce dell'importanza di Venezia come vetrina, ma anche del suo rapporto storico con il Bitto. Un rapporto che è venuta ora di rinfrescare. Perché ora? Perché il Bitto storico, fortemente osteggiato dai livelli 'istituzionali' (in senso lato), appiattiti sulle prospettive agro-produttivistiche (e sugli interessi della casta imprenditorial-politica valtellinese), ha deciso una strategia di 'devaltellinizzazione' che comporta la valorizzazione dell'autentica identità del Bitto: quella orobica. Un'identità che si collega ad una cultura sviluppatasi in Valsassina e in Valbrebana(territori un tempo uniti sia sotto il profilo politico che ecclesiastico) e che ha influenzato (anche i ragione di un travaso demografico) le testate delle vallate orobiche della bassa Valtellina. Il Bitto storico ha tutto l'interesse a giocare la carta della storia. Il Bitto 'generalista', nato nel 1996 (e poi modificatosi in peggio nel 2006), è sorto con un peccato originale inguaribile, sulla base di un'operazione spregiudicata e arrogante che cancellava la storia e la geografia del Bitto. Veniva attestata una tradizione produttiva estesa anche a quelle parti della Valtellina (per non parlare della Valchiavenna) dove non si produceva neppure un generico formaggio grasso. Per il Bito storico oggi gocare la carta della storia significa guardare a Bergamo (e a  Venezia).


Bitto: formaggio bergamasco

Sino ai primi anni del secolo scorso il Bitto veniva commercializzato prevalentemente a  Branzi in occasione della fiera settembrina di San Matteo (dove, al termine della stagione d'alpeggio, convergevano intere partite di Bitto). Dal nome del mercato di raccolta il Bitto prendeva anche il nome di 'Branzi'. Anche nei secoli precedenti, però, buona parte della produzione delle valli del Bitto (per non parlare di quella della val Tartano) era esitata in località brembane. Il prodotto destinato a Bergamo (dove esistevano delle stagionature) era colorato di zafferano,  un prodotto che arrivava da Venezia. Dagli stessi alpeggi di Gerola 'cuore del Bitto storico', il Bitto scendeva a Cusio e Mezzoldo per avviarsi a Bergamo. Questa corrente commerciale aveva una sua motivazione nella presenza della Via Priùla (vedi box sotto), costruita alla fine del Cinquecento con criteri molto avanzati (pendenze e ampiezza della carreggiata regolari), una vera 'autostrada'.  Venezia la realizzò per avere un collegamento diretto - senza passare per lo Stato di Milano - con il Passo dello Spluga (che conduce nella valle del Reno e quindi al cuore dell'Europa).
Nella strategia del Bitto storico c'è un recupero delle storiche relazioni tra il Bitto e i suoi tradizionali mercati, oltre Bergamo anche Como e Milano. Quanto alla Valtellina essa dovrà dimostrare nei fatti, di meritarsi l'identificazione con il Bitto dopo che ha cercato di accaparrarselo senza merito e che, non avendo la considerazione e il rispetto che si nutrono per le cose proprie, lo ha in parte snaturato.

La via Priùla

Prende il nome da Alvise Priuli, Podestà e Capitano di Bergamo. Egli fece realizzare la nuova via in tempi rapidissimi, tra il 1592 e il 1593. Fu un'opera  importante perché coincise con l'apertura di una via di traffico commerciale internazionale consentendo il trasporto con piccoli carri laddove prima potevano transitare con difficoltà solo i muli (lungo l'antica via mercatorum).  A parziale consolazione va osservato che, in analogia con le attuale italiche costumanze in materia di opere pubbliche già ai tempi di Priuli si verificava lo  'splafonamento' dei preventivi (da 2.000 a 8.200 ducati). Ma veniamo all'importanza storica rivestita a lungo dalla nuova Via. La sua realizzazione corrispondeva ad una esigenza strategica: evitare che le merci tra il centro-Europa e Venezia transitassero attraverso lo Stato milanese. In precedenza, data la difficile percorrenza dei vecchi tracciati brembani (che da Averara risalivano la Val Mora e conducevano verso il Passo di Verrobbio), le merci da Bergamo si dovevano dirigere verso il Lario utilizzando la comoda via d'acqua ma sottostando alla pesante tassazione milanese per poi proseguire per lo Spluga attraverso la Valchiavenna, anch'essa sotto il dominio Grigione.  La via Priùla, però,  non ebbe comunque mai il successo sperato dal suo ideatore e fu importante più per i traffici locali che per quelli a lungo raggio. Il suo declino avvenne con  il Congresso di Vienna che, unificando con quanto rimaneva dello Stato di Milano,  i territori lombardi precedentemente sotto dominio veneziano e grigione, decretò la fine dell'importanza commerciale della Via. La successiva costruzione, per opera dell'Imperial Regio Governo Lombardo-Veneto della  nuova via del Lago di Como e dello Spluga (anni '20)  consentì di percorrere per la prima volta la riva orientale del Lario e diede il colpo definitivo anche se - sempre in periodo Lombardo-Venteo vennero  eseguiti dei lavori per rendere il tracciato realmente carreggiabile (terminati, però, nell'ultimo tratto di discesa a Morbegno, solo a fine Ottocento). Da allora in poi la Via Priùla tornò ad essere un collegamento di interesse esclusivamente locale. Negli anni '60 del secolo scorso la realizzazione della strada carrozzabile del Passo di San Marco ha ridato una certa importanza (sul piano turistico) al collegamento tra la Val Brembana e la Valle del Bitto.Alvise Priuli curò direttamente anche la realizzazione del tratto di strada in territorio Grigione che dal Passo di San Marco conduceva a Morbegno. Tale opera venne completata in tempi successivi, ma comunque brevi, dopo il completamento del tratto brembano.Oltre che alle merci la Via Priùla rappresentò anche un'autostrada delle mandrie transumanti che si spostavano ogni anno tra la pianura lombarda e l'alta Val Brembana. I malghesi (ovvero i proprietari delle malghe, termine tutt'oggi utilizzato per indicare le mandrie e non gli alpeggi) non solo poterono raggiungere più comodamente i pascoli sul versante brembano ma approfittarono della Priùla per affittare alpeggi anche in Val Gerola. Un capitolo interessante della storia della transumanza e del formaggio Bitto che vedrà i malghesi brembani caricare gli alpeggi sul versante valtellinese ancora all'inizio del XX secolo.


  

giovedì 9 giugno 2011

Bitto: formaggio orobico

In vista della prossima edizione di Cheese, che confermerà il rilievo assoluto dell'Unione dei formaggio orobici quale formidabile 'coalizione' di prodotti storici, pubblichiamo alcuni matriali sulla questione del Bitto più orobico che valtellinese


Nel riportare il baricentro del Bitto storico a Sud del crinale delle Orobie non c'è nessuna provocazione. Solo chi non conosce la storia può pensare che il Bitto sia un prodotto "della Valtellina e della Valchiavenna". Morbegno, che dopo secoli era riuscita a portare sul versante Nord la 'capitale del Bitto' approfittando di fattori di crisi che avevano colpito la Val Brembana casearia, sta perdendo di nuovo questo ruolo e non solo per poca lungimiranza.  C'è anche un elemento di 'indegnità morale' (la svendita della Dop, il fallimento della Mostra del Bitto, il malaffare testimonato dai recenti rinvii a giudizio di esponenti politici).

La triste parabola della Mostra del Bitto

La Mostra dei prodotti della montagna lombarda, che si era sviluppata a fianco della Mostra del Bitto, aveva rappresentato nelle sue prime edizioni un evento che aveva catallizzato e acceso molte speranze sul rilancio dell'economia montana ancora prima che si parlasse di sostenibilità ecc.  Ospitava iniziative culturali di buon livello, con convegni nell'auditorium ricavato nella ex-chiesa di S.Antonio cui partecipavano personaggi che avevano realmente a cuore la montagna.
 Le vie del centro storico si riempivano di gente. Poi, invece di puntare sul recupero dei chiostri dell'ex-convento domenicano e di perfezionare il modello di un evento che ha per teatro tutto il centro storico (come avviene a Bra con Cheese) si è puntato sul Polo fieristico, ovvero sulle strutture pesanti. Oggi tali strutture sono prevalentemente adibite a eventi musicali e per gli appalti della Hall (ma anche per i conti gonfiati della Mostra del Bitto al fine di estorcere alla Regione rimborsi surrettizi ) sono stati rinviati a giudizio personaggi di grosso calibro: Silvano Passamonti, per lungo tempo presidente della Comunità Montana e Luca Spagnolatti, direttore di 'Eventi valtellinesi'.  Ma a parte queste tristezze non meno deprimente è constatare che alla Mostra del Bitto sono messe in mostra le mercanzie più disparate, senza alcun legame con la montagna e la tipicità. Una parabola che segna il punto più basso di un percorso che, negli anni '80, quando la Mostra era in P.zza S.Antonio era iniziato con ottimi auspici favorendo la riscoperta di tanti prodotti tradizionali della montagna che sembravano essere stati cancellati dall'omologazione consumista e industrialista.
Morbegno e la Valtellina hanno avuto per quasi un secolo in mano il 'pallino' della valorizzazione di quello straordinario giacimento che è il Bitto. Hanno voluto esagerare, strumentalizzando la plurisecolare reputazione del Bitto per 'spingere' non solo la produzione di alpeggi che utilizzano mangimi e fermenti e che, in alcuni casi, miscelano il latte di diversi produttori ma anche una produzione massificata, il  'Casera' (il Consorzio 'ufficiale' tutela Valtellina Casera e Bitto). Il Valtellina Casera è  prodotto per lo più da due caseifici industriali e ottenuto da latte di vacche allevate, sempre per lo più, nel fondovalle in condizione di allevamento e alimentazione simili a quelle della pianura padana.
 Insieme alle più o meno lungimiranti strategie di marketing ha concorso alla 'sondrizzazione' del Bitto un malinteso 'patriottismo provinciale' che ricalca in scala ridotta quella tendenza alla naturalizzazione dei confini politici introdotta dalla cultura giacobina sulla scala della Nazione. Un 'patriottismo' e una marcatura di confini quanto mai artificiale quando applicata alla montagna dove il più delle volte i massicci vedevano culture omogenee sui diversi versanti e i confini erano costituiti più dalle acque che dai crinali. Sul versante  versante bergamasco questa discutibile tendenza ha prodotto la 'bergamaschizzazione' del Branzi. Così quando è stata creata la Dop Bitto i bergamaschi che avrebbero avuto molte cose da dire sono rimasti zitti. Il già citato Apeddu aveva manifestato la volontà di avanzare giuste obiezioni ma venne convinto a farsi le dop sue.
“Il Branzi era il vanto della produzione casearia della montagna bergamasca e veniva prodotto sugli alpeggi dei bacini di Valtorta, Mezzoldo, Val Mora. Val di Foppolo, Val di Carona e Val secca e proveniva dalla lavorazione del latte intero di vacca, ma alcuni vi aggiungevano anche una piccola parte di latte di capra” [1]
In realtà il ‘Branzi’, trasporato da muli o a dorso d’uomo proveniva in larga misura dalle valli orobiche valtellinesi. Il Melazzini, autorevole tecnico caseario formatisi alla Scuola di caseificio di Parma,  indicava l'origine del 'Branzi' nella val Tartano e nelle vallate orobiche più ad Est: Cervia, Madre, Livrio e Venina, l'area di produzione. Anche una parte della stessa produzione delle valli del Bitto, specie quella della valle di Albaredo, era destinata 'ai Branzi'  Il nome  'Branzi' derivava dalla località dell'alta val Brembana dove, alla fiera di S.Matteo di settembre, affluiva la produzione degli alpeggi della stessa val Brembana ma anche delle valli orobiche valtellinesi.  Interessante poi osservare che nel dualismo Bitto/Branzi abbiamo nel primo caso un riferimento ad un area di produzione, nel secondo ad un centro di commercializzazione (come nel caso del Bra e di altri noti formaggi).

Bitto o Branzi?

Il motivo è evidente: per secoli il ‘Branzi’ dal punto di vista commerciale (quantità) ha prevalso sul Bitto. Il prodotto perveniva a Branzi (o ‘ai Branzi’ come si diceva un tempo) da un’area abbastanza vasta (quindi abbastanza eterogenea) ed era ovvio l’interesse, per garantire un’identificazione univoca richiamare il punto di convergenza commerciale. Come dicevamo, però, il 'Branzi' era prodotto anche nelle Valli del Bitto, anche nella culla della Valgerola. Le prove storiche sono schiaccianti. Alcuni dei documenti storici più interessanti sulla gestione dell'alpeggio nelle Valli del Bitto sono costituiti dai registri  d'alpeggio di Orlando Curtoni (1676-1761) e dei figli Antonio e Gerolamo cistoditi persso l'Archivio parrocchiale di Gerola ed esaminati dall'amico Cirillo Curtoni [2]. I Curtoni caricavano l'Alpe Pescegallo Lago di Gerola. Nei registri del padre si indica la presenza di sue soci caricatori di Cusio in alta Val Brembana (di parentela Rovelli), il formaggio era venduto a Cusio e tra le spese figurava l'acquisto dello zafferano. Tutto il prodotto venduto in Bergamasca era colorato con zafferano (una tradizione che è rimasta viva nel caso del Bagoss e che nel Bitto/Branzi si è persa nel corso del '900). Begamo apparteneva alla Repubblica di Venezia, terminale del mercato delle spezie. Da Venezia, tramite Bergamo e la Via Priúla, lo zafferano saliva sin sugli alpeggi di qui e di là del Passo di S.Marco. Anche i figli di Orlando Curtoni hanno venduto il Branzi/Bitto in val Brembana (sono citate vendite a commercianti di Averara e di Cusio a volte con consegne alla Casera di S.Marcio sull' 'autostrada' della Via Priúla). Negli anni più recenti (arriviamo al 1800), le vendite a commercianti di Como si intensificano.  Ancora nel 1844 il formaggio dell'alpe Pescegallo Lago, però, risulta venduto sempre in alta val Brembana, a Mezzoldo (vedi riproduzione del documento sotto) come si ricava dal registo della ripartizione di spese e ricavi tra i tre soci caricatori: Bartolomeo Acquistapace , Antonio Curtoni e Ambrosetti Giovanbattista. Tra le spese figura sempre lo zafferano. Ergo si produceva 'Branzi'.



Viene da chiedersi se era solo lo zafferano a distinguere Branzi da Bitto, chiarito che gli stessi alpeggi erano in grado di produrre l'uno e l'altro. All'inizio del '900 il prodotto destinato a Branzi, era indicato dal Melazzini [3], un autorevole tecnico caseario formatisi alla Scuola di caseificio di Parma anche come  'uso grana', e si distingueva dal formaggio Bitto esitato a Morbegno per la maggiore durezza, determinata dalla cottura ad una temperatura più elevata.
"Si passa tosto alla cottura con fuoco abbastanza vivo così da portare il tutto in mezz'ora o tre quarti d'ora alla temperatura di 38-45° R. [47,5-56] °C pel formaggio uso grana; 34-38° R. [42,5-47,5°C] pel Bitto."
È facile osservare che le caratteristiche del Bitto attuale si avvicinano alla tipologia che il Melazzini, identifìcava con il ‘Branzi’ Tale tendenza è stata sancita definitivamente’con la standardizzazione introdotta dal disciplinare della Dop. Uno ‘scambio di identità’ che secondo noi non fa che confermare l’osmosi tra i due versanti orobici ed un secolare scambio di esperienze e di prodotti. A conferma di una identità largamente sovrapponibile è interessante osservare che, nell'ambito della stessa pubblicazione che riportava lo studio del Melazzini, l'autorevolissimo Arrigo Serpieri nell'Inchiesta sui pascoli alpini della provincia di Bergamo [4] indicava come 'Branzi' la sola produzione degli alpeggi delle convalli di Carona e Val secca (vedi Tab. seguente. Nella maggior parte dei casi (tranne dove la quantità di latte non era sufficiente a produrre una forma) si produceva quello che Serpieri definiva 'tipo Bitto' riservando al solo prodotto delle Valli del Bitto la denominazione 'Bitto'.


Tab. 1 - produzioni casearie degli alpeggi delle valli dell'alta Val Brembana agli inizi del '900



Valle
Nome alpeggio
Comune
Paghe
Prodotto
Val Mora
Ponteranica
S. Brigida
60
Formaggio tipo Bitto
Parissolo
S. Brigida
60
Formaggio tipo Bitto
Valli
S. Brigida
37
Burro e formaggio magro
Avaro
Cusio
173
Formaggio tipo Bitto
Foppa
Cusio
100
Formaggio tipo Bitto
Colle
Averara
100
Formaggio tipo Bitto
Ancogno
Averara e Mezzoldo
180
Formaggio tipo Bitto
Gambetta
Averara e Mezzoldo
80
Formaggio tipo Bitto
Cantedoldo
Averara e Mezzoldo
90
Formaggio tipo Bitto
Val di Mezzoldo
Azzarino con Fioraro e Monte Nuovo
Mezzoldo
172
Formaggio tipo Bitto
Azzarino-Calvetti
Mezzoldo
90
Formaggio tipo Bitto
Cavizzola
Mezzoldo
82
Formaggio tipo Bitto
Siltri
Mezzoldo
58
Formaggio tipo Bitto
Terzera
Mezzoldo
107
Formaggio tipo Bitto
Cavallo
Piazza Torre
97
Formaggio tipo Bitto
Monte Secco
Piazza
45
Formaggio tipo Bitto
Torcola vaga
Piazza
118
Formaggio tipo Bitto
Torcola soliva
Piazza
94
Formaggio tipo Bitto
Toragello
Mojo de’Calvi
58
Formaggio tipo Bitto
Toracchio
Mojo de’Calvi
80
Formaggio tipo Bitto
Foppolo
Vago
Valleve
30
?
Arale V.
Valleve
300
Formaggio tipo Bitto
Scessi
Valleve
Fontanini
Valleve
60
Stracchino
Saline
Valleve
70
Formaggio tipo Bitto
Piazzoli
Foppolo
35
?
Arete
Foppolo
100
Formaggio tipo Bitto
Rovera
Foppolo
28
?
Cadelli
Foppolo
20
?
Dordona
Foppolo
18
?
Valle di Carona e Val Secca
Carisole
Carona e Foppolo
700
Branzi
Val Sambuzza
Carona
133
Formaggini freschi
Sasso
Carona
191
Branzi
Armentagra
Carona
118
Branzi
Mersa
Carona
72
Branzi
Foppe
Carona
66
Branzi
Acquabianca
Carona
105
Stracchini di Gorgonzola
Sardignana
Carona
55
Branzi
Foppobne
Carona
33
?
Lago Gemello
Branzi
173
Branzi
Valle Oscura
Branzi
80
Branzi
Monte Colle
Branzi
133
Branzi
Mezzena
Roncobello
197
Branzi
Grumello
Roncobello
45
Branzi
Zoppo
Bordogna
30
?



In ogni caso, sia la perentoria classificazione del Melazzini, che distingueva il Bitto dal Branzi sulla base di precisi parametri tecnologici, che quella del Serpieri, che discriminava su base geografica il Bitto dal ‘tipo Bitto’ (prodotto sugli alpeggi della val Brembana, delle valli retiche Masino e dei Ratti, delle altre vallate orobiche e anche della valle Albano nel Lario occidentale) esprimono le inevitabili ambiguità di un complesso processo di costruzione della tipicità. In bilico tra la definizione tecnologica e quella geografica, tra orientamenti qualitativi imposti dalla domanda (e mediati dai commercianti) e determinanti legate a fattori produttivi (competenze dei casari, qualità dei pascoli, sistema alpicolturale  e manipolazione del latte).  La produzione del Bitto, in ogni caso, era fatta coincidere con un vertice di eccellenza ed era associata ad un’area omogenea e ristretta all’interno di un’area allargata dove si produceva ‘Branzi’ o ‘tipo Bitto’ che dir si voglia. La mappa originale sotto riportata cerca di definire una 'geografia storica del Bitto'.

Fig. 1 - Mappa del Bitto : in rosso l'area storica, in giallo aree con produzione di formaggio grasso 'tipo Bitto' in almeno parte degli alepeggi della zona attestata all'inizio del '900 e in parte ancora attuata. In rosa un'area 'antica' di produzione del Bitto che ha lasciato spazio, sin dall' '800 ad un prevalente orientamento verso la produzione di formaggelle e formaggio semi-grasso (nostra elaborazione)

Mors tua, vita mea

È stata – come vedremo tra breve - la crisi delmercato di sbocco di Branzi a decretare la consacrazione del Bitto una consacrazione alla quale ha sì contribuito una consapevole ‘strategia della tipicità’ giocata da Morbegno sin dagli inizi del secolo scorso (con la prima Mostra del Bitto nel 1907 e la realizzazione della Casera sociale dei caricatori d'alpe di Morbegno), ma che dovuta prevalentemente ad una crisi 'endogena' del Branzi.  Alla fine dell'Ottocento gran parte della produzione del Bitto si commercializzata sulla piazza di Branzi  dove venivano  commercializzate alla Fiera in totale circa 10.000 forme. Al mercato di Branzi negli anni precedenti il primo conflitto mondiale la produzione di . Branzi ivi esitata era valutata in 1.300 q.li. da Branzi il prodotto era inviato agli stagionatori di Bergamo da dove poi raggiungeva diverse piazze della Lombardia e del Veneto e anche le rivendite romane gestite da valtellinesi:
 "Nella fiera del formaggio dei Branzi si concentrava, un tempo, gran parte del Bitto prodotto in Bergamasca e in Valtellina, che affluiva su numerose piazze in Lombardia, nel Veneto e a Roma tramite valtellinesi dei Cek e della Valmasino che, già allora, vi gestivano negozi alimentari. Quella fiera ne manteneva inoltre elevato il prezzo" [5]

Declino della Fiera di Branzi, il 'nuovo' Branzi, una versione 'minore: il Formai de Mut

Già negli anni precedenti il primo conflitto mondiale, però, si assistette ad un declino del ruolo della Fiera di S.Matteo quale mercato del Bitto. Nel 1910 furono venduti 1.910 i q.li di formaggio, scesi a 1.300 nel 1913. Questo declino era legato, almeno in parte, al potenziamento concorrenziale del ruolo di Morbegno che dopo aver 'agganciato' i prezzi di Branzi riuscì a imporne di superiori.  Dopo la prima guerra mondiale la piazza di Branzi conobbe una profonda crisi con una drastica riduzione della quantità di formaggio grasso trattata che scese a soli 830-850 q.li negli anni Trenta [6].
La crisi di Branzi era determinata a due ordini di fattori: 1) laconcorrenza del grana prodotto a costi sempre più competitivi dai caseifici della Bassa metteva fuori mercato il prodotto di Branzi, che i grossisti bergamaschi commercializzavano quale formaggio da grattugia; 2) la riduzione col numero delle vacche da latte caricate dai bergamini transumanti che, sempre più spesso, nel periodo Ira le due guerre, tendevano a mantenere per tutto l'anno in pianura le bestie lattifere più produttive monticando solo animale asciutto, proprio o ‘preso a guardia’ dagli affittuari della Bassa. Va osservato a questo proposito che, al di là del declino della piazza di Branzi, questo movimento di ‘fissazione' dei bergamini verso l'esercizio dell'alpeggio nelle valli brembane (che, gradualmente, assumeva anche il carattere di una definitiva fissazione in pianura), comportò anche l'inversione di una secolare corrente di migrazione stagionale per l'alpeggio che aveva visto i mandriani bergamaschi caricare gli alpeggi del versante orobico valtellinese. Dal periodo tra le due guerre mondiali in poi saranno i cargamuunt valtellinesi a prendere in affitto gli alpeggidell'alta valle Brembana.
Per reagire alla riduzione della produzione degli alpeggi che comportava sia un ridotto carico di bestiame che la vendita a Morbegno dello stesso prodotto degli alpeggi sul versante brembano, si iniziò da parte della Latteria Sociale di Branzi a produrre un 'nuovo' Branzi invernale ottenuto per parziale scrematura del latte della mungitura serale. Dimensioni e forma rimasero uguali al prodotto tradizionale degli alpeggi (compresa la classica concavità dello scalzo, comune con il Bitto). Una piccola produzione di Branzi d'alpeggio è continuata sino ad oggi. Non ha contribuito a risollevare le sorti della gloriosa tradizione casearia brembana la 'nascita' del Formai de Mut (a partire dagli anni '70-'80). Che il formaggio d'alpeggio della Val Brembana fosse il Branzi era noto a tutti ma il Formai de Mut, più piccolo e con lo scalzo diritto , ottenne la Dop nel 1985 grazie alla già ricordata amicizia del patron del Formai de Mut stesso, il comm. Pierangelo Apeddu con l'allora ministro dell'agricoltura Filippo Maria Pandolfi. Il consorzio del Formai de Mut ha subito diverse traversie. Bitto storico, Branzi e Formai de Mut da qualche tempo hanno però compreso che la matrice da cui derivano è la stessa e che la collaborazione tra 'orobici' è la via da seguire per superare le contraddizioni che hanno offuscato una storia prestigiosa.

Una storia comune che va molto indietro nel tempo

La documentazione iconografica più antica, almeno a mia conoscenza, relativa ad un formaggio con caratteristiche esteriori simili al Bitto risale al 1470 e riguarda un affresco (le nozze di Cana) del ciclo della vita di Gesù dipinto dal pittore clusonese Giacomo da Buschis detto Borlone. Sulla tavola, oltre a dei pani, un formaggio duro e verosimilmente ben stagionato.


Il particolare interessante consiste nel fatto che la forma è appoggiata sul tavolo non di piatto ma di taglio, cosa possibile in quanto lo scalzo e manifestamente concavo. Come oggi. Sulla presenza a Clusone di un formaggio ‘antenato’ del Bitto non c’è da farsi meraviglia. Le valli del Bitto e la limitrofa Val Tartano sono sempre state strettamente collegate alla Val Brembana. Quanto alla Val Seriana c’è da dire che se la produzione casearia si è orientata da lungo tempo alle ‘formaggelle’ è anche vero che la tecnica del formaggio semigrasso (ma anche grasso) è tutt’altro ignota ancora oggi. Era certo più in auge nel passato. Guarda caso un’altra preziosa fonte iconografica la troviamo a Castione della Presolana, al Santuario della Madonna di Lantana dove nella pala settecentesca raffigurante S. Lucio, patrono dei casari e degli alpeggi un angiolo sorregge una maestosa forma di ‘Bitto’ che dallo scalzo, dal colore della pasta, dalla scagliatura della stessa appare in tutto e per tutto un Bitto di lunga stagionatura. Inutile sottolineare che la pala è il frutto del mecenatismo dei relativamente ricchi bergamini dorghesi.


Il motivo di questa presenza del Bitto in Val Seriana è da ricollegare ad un’area storica allargata’ che, in passato, era più estesa e che coincideva con la presenza sugli alpeggi dei già ricordati  ‘bergamini’ o ‘malghesi’. Direttamente o indirettamente il ‘boom’ della transumanza, che consentì di aumentare notevolmente il patrimonio zootecnico bovino tra '500 e '600 influenzò anche le valli orobiche del versante valtellinese dove alcuni malghesi bergamaschi acquistarono o affittarono alpeggi o entrarono in società con elementi locali. La presenza nelle valli orobiche valtellinesi, soprattutto in Val Tartano, di cognomi di origine bergamasca conferma come, nonostante il confine di stato che divise le Orobie dal 1428 al 1797, l’osmosi tra i due versanti fosse profonda. Un’osmosi che durerà sino ad oggi, nonostante i confini di stato, e testimoniata anche da cause secolari per l’utilizzo degli alpeggi della valle del Bitto da parte di transumanti bergamaschi (legati al diritto di transito)[7].

Paradossalmente è stato con l'abolizione dei confini di Stato che dividevano le 'tre signorie': Stato di Milano, Repubblica di Venezia, Grigioni che il 'confine' è diventato, dopo Napoleone,  meno permeabile. Un fatto legato alla burocratizzazione della vita sociale con la conseguente dipendenza dai centri amministrativi e da un nuovo sistema di viabilità che penalizzava i collegamenti tra valli.  Ma oggi la 'comunità di massiccio' riprende significato .

Note

6. Provincia di Bergamo, op. cit.
7. Ruffoni, op. cit.