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domenica 23 agosto 2015

Siccità sugli alpeggi e ipocrisia "ambientalista"

 La grave siccità che ha colpito gli alpeggi a luglio, perdurando sino alla prima settimana di agosto, non è rimasta senza conseguenze. Ma chi soffre di più per il calo di produzione di latte è chi non usa i mangimi, ovvero chi rispetta il pascolo e l'ambiente. Così solo i "puristi dei pascoli" si sono fatti sentire


Quest'anno la siccità ha picchiato duro sui pascoli alpini. L'erba è maturata precocemente, troppo in fretta e altrettanto rapidamente è maturata divenendo "paglia in piedi". Ma sono poche le voci che si sono levate per attirare l'attenzione sulle sue conseguenze e per chiedere delle misure compensative. Tra queste quelle di Paolo Ciapparelli, il "guerriero del bitto", che ha accusato apertamente le istituzioni di disinteressarsi del problema, e quella di Giovanni Dalmasso, presidente dell'Adialpi (margari di Cuneo)

Gli alpeggi rappresentano un settore di "nicchia" e la politica e le organizzazioni agricole hanno ben altri interessi. Quando se ne interessano intervengono con la leva dei contributi. Da sola, però, essa produce  corse speculative che danneggiano i veri alpeggiatori. Così anche nella realtà lombarda, che meglio di altre "teneva", il numero delle vacche da latte monticate in dieci anni si è dimezzato.
Paga di più le conseguenze dell'inquinamento e dei cambiamenti climatici chi meno ne è responsabile

Il microcosmo dell'alpeggio e della zootecnia montana ci consegna amare riflessioni sull'ipocrisia "ambientalista" che domina nel discorso pubblico. Chi custodisce biodiversità e  saperi ambientali, usa in modo saggio e prudente le risorse naturali è penalizzato da un sistema che continua a incentivare le produzioni insostenibili.
Prodotti alimentari a basso costo ottenuti con abbondante energia fossile, disseminazione di veleni chimici, ogm, distruzione di fertilità naturale dei suoli, distruzione della troppo evocata biodiversità, creano catene di valore fondamentali per il sistema economico. E la politica continua a premiare l'agricoltura industriale, che si fa ascoltare attraverso gli interessi organizzati.  
Chi quest'anno in alpeggio ha fatto uso di mangimi è sfuggito in larga misura alle conseguenze della siccità. Chi non li usa (garantendo una qualità - anche salutistica - superiore del formaggio) è stato pesantemente penalizzato. Inutile ricordare che la produzione e l'uso dei mangimi contribuiscono all'effetto serra (nel caso dell'alpeggio si aggiunge il trasporto in elicottero ad aggravare il contributo alle emissioni di CO2)

Solo voci isolate si sono levate a denunciare la gravità della situazione

Paolo Ciapparelli, il presidente del Consorzio per la salvaguardia del bitto storico, non ha mai avuto peli sulla lingua (è infatti considerato un gran rompicoglioni dall'establishment politico-imprenditoriale-istituzionale valtellinese).
Paolo Ciapparelli, il guerriero del bitto storico. Ma anche il "druido dell'erba"

Poteva tacere Ciapparelli  in un simile frangente? No di certo, avendo da vent'anni in qua impostato la sua battaglia sulla difesa della qualità del formaggio d'alpeggio, che nasce dall'alimentazione a base di erba di pascolo in via esclusiva, avendo fatto del rispetto del perfezionatissimo sistema di pascolo razionato praticato negli alpeggi storici del bitto una specie di religione. E così interpellato dal quotidiano La Provincia è andato giù piatto (22 agosto 2015). Riferendosi alla siccità sugli alpeggi ha dichiarato:

Un grave danno in termini di produzione e di gestione del pascolo: 40 giorni di temperature molto al di sopra della norma, nessuna pioggia e il fieno a 2.000 metri sono condizioni che a nostra memoria non si sono mai verificate. Parliamo di una perdita del 25-30% in termini quantitativi. Di fronte a tutto questo però le istituzioni hanno taciuto: non una parola e tanto meno un intervento in emergenza sulla situazione. Tutto il gran parlare intorno al valore del mondo contadino di montagna si dimostra vano di fronte alla totale incapacità di prestare attenzione a problemi enormi come quello di questa annata d’alpeggio.

Dal momento che in Valtellina si guarda molto alla Svizzera Ciapparelli non ha potuto fare a meno di ricordare la mobilitazione dell'esercito svizzero a favore dei pascoli per portare acqua necessaria ad abbeverare le mandrie. Un intervento durato settimane (terminato solo il 19 agosto). Non è tanto l'entità dell'intervento in sé che ha indotto Ciapparelli a confrontare la reazione svizzera con quella italiana quanto il rilievo che, oltreconfine,  ha avuto la notizia, finita sui TG nazionali. Una diversa attenzione che si esprime in tanti modi. Nel 2003, annus horribilis, per caldo e siccità, la Confederazione stabilì un'indennità speciale per compensare lo scarico anticipato del bestiame da carne alpeggiato che doveva essere macellato anzitempo. Se poi pensiamo che in Svizzera è la Confederazione a tutelare con una norma federale la dicitura "Formaggio d'alpeggio", che c'è una mappa dei pascoli dove può essere prodotto il "Formaggio d'alpeggio", che con il latte prodotto in alpeggio non si può produrre "Formaggio d'alpeggio" nei caseifici di fondovalle, che non è ammesso di alimentare con più di 1 kg di integrazione extrapascolo (mangime + fieno) le vacche da latte perdita la perdita del marchio "Formaggio d'alpeggio", allora ci si rende conto che ... la Svizzera è un altro pianeta. Ma gli alpeggi non sono importanti in Italia? Tutt'altro, in ttte le regioni alpine rappresentano una quota sostanziale del territorio montano e contribuiscono in modo rilevante alla qualità del paesaggio e alla sua fruibilità, al mantenimento del patrimonio zootecnico, alla capacità di infiltrazione dell'acqua nel terreno e alla prevenzione dei rischi idrogeologici, alla biodiversità (catene troifiche e microhabitat per uccelli, insetti anfibi ecc.).  
Elicottero Puma dell'esercito svizzero impegnato nel rifornimento di acqua agli alpeggi in luglio 
Prima di Ciapparelli era intervenuto un'altro "difensore degli alpeggi". Giovanni Dalmasso è egli stesso un marghée (margaro). I margari delle provincie di Cuneo e di Torino a differenza di quelli lombardi (malghées) praticano ancora la transumanza e svernano di solito in pianura. In forza del carattere poco "stanziale" sono molto legati all'allevamento e al pascolamento ma negli ultimi lustri hanno dovuto combattere contro nuovi nemici. Non più solo il "mercato" che svaluta anche la preziosa carne di Piemontese e i formaggi d'alpeggio, non solo la burocrazia (nostrana e di Bruxelles) ma anche contro i lupi e gli speculatori. I canoni degli alpeggi sono andati alle stelle e si praticano maneggi di ogni tipo (quest'anno sono arrivate pecore da Roma in Val Grana ed erano attese delle bufale, sempre dal Lazio a Ormea). Se ci si mette anche la siccità...
Giovanni Dalmasso, presidente dell'Adialpi
Dalmasso e alcuni suoi colleghi ed amici hanno deciso di reagire. Hanno costituito l'ADIALPI (Associazione per la difesa degli alpeggi piemontesi) (vai al comunicato)

Quello che chiediamo – commenta Giovanni Dalmasso – è un’attenzione particolare da parte degli enti di controllo alle diverse situazioni che si possono riscontrare sulle superfici degli alpeggi: occorre avere il giusto riguardo di differenziare le zone rocciose, ovviamente non ammissibili a premio, con quelle aree di pascolo “povere” in cui la carenza di cotica è dovuta ovviamente al carattere eccezionale della siccità.
Si tratta di pascoli magri di alta quota in cui la vegetazione a volte fiorisce a luglio e in caso di clima avverso, come quello a cui stiamo assistendo, nell’arco di poche settimane tende a seccare e a scomparire. Questo non significa però che non siano zone abitualmente utilizzate a pascolo anzi, è proprio da questi pascoli che ricaviamo dai nostri animali il miglior latte per produrre quel formaggio tanto apprezzato dai turisti che salgono sulle nostre montagne.
Annata compromessa in alcuni alpeggi

Parlando direttamente con Ciapparelli si coglie meglio la dimensione della calamità. Non una calamità generalizzata (anche se il danno c'è ovunque) ma manifestatasi in modo diverso e con diversa entità nelle diverse situazioni. Hanno sofferto molto gli alpeggi prealpini con substrato geologico calcareo dove ci si deve affidare anche nelle annate migliori alla raccolta dell'acqua piovana per abbeverare le mandrie. Hanno sofferto meno gli alpeggi con una buona escursione altimetrica tra il piede e la cima perché hanno potuto compensare in parte il danno salendo anticipatamente alle quote superiori.  In generale hanno sofferto di più gli alpeggi "tradizionali" che non si affidano ai mangimi portati a sette quintali per volta con gli elicotteri.  Qui lo sfogo di Ciapparelli si fa amaro:

Chi usa di regola i mangimi, diversi chili al giorno per vacca, non ha risentito quasi nulla ques'anno, abbiamo sofferto noi che valorizziamo il pascolo, che cerchiamo ancora oggi di pascolare tutta la superficie con l'antico sistema turnato dei calecc' e delle baite [i primi sono piccoli caseifici di muro a secco senza copertura, protetti solo da una tenda impermeabile]. Noi produciamo in media tra l'inizio e la fine dell'alpeggio circa 7 kg di latte per vacca al giorno, ma con la siccità, con quell'erba indurita precocemente, la vaccamangia meno e male e il latte in alcuni dei nostri pascoli è sceso a soli 4 kg al giorno rendendo difficile produrre una forma di bitto storico per munta [li bitto storico deve essere tassativamente prodotto con latte ancora caldo di munta]

Aggiungiamo che chi usa chili e chili di mangimi fa più latte ma un latte ben diverso, con meno grassi "buoni" (acidi grassi insaturi a lunga catena). Le vacche riducono il consumo di erba (l'amido del mangime deprime la microflora cellulosolitica che consnete la digestione della cellulosa del foraggio), restano più vicine ai siti di mungitura e di distribuzione del mangime, il minor appetito le spinge ad esplorare meno superficie di pascolo. In compenso nelle aree più comode e pianeggianti, dove si concentra il pascolo e si pratica la mungitira (con mungitrici meccaniche mobili spesso solo sulla carta), si riversa una quantità di deiezioni extra (quanto sfugge alla digestione ella metabolizzazione dei principi nutrienti del mangime). Molte più deiezioni su aree ristrette. Risultato: pascolo rovinato per troppo "ingrasso" da una parte, pascolo rovinato per mancata fertilizzazione e consumo dell'erba dall'altra (dove non si pascola crescono in pochi anni essenze infestanti e poi piante legnose, arbusti e alberelli). Il sistema "tradizionale" conserva una risorsa sostenibile, il pascolo seminaturale che consente di produrre alimenti di origine animale senza pesticidi e quasi senza energia fossile. Perdere i pascoli non è "sostenibile" anche perché come da studi effettuati dal CNR i pascoli, nonostante la produzione di metano da parte dei ruminanti, hanno un bilancio di gas serra positivo.  Usare i pascoli con animali alimentati a mangimi non è sostenibile non solo perché è l'anticamera dell'abbandono dei pascoli ma anche come ricodavamo all'inizio perché la coltivazione delle materie prime di cui è composto il mangime, i trasporti, la produzione del mangime finito, richiedono molta energia fossile.
L'Alpe Culino (proprietà della Regione Lombardia) in una foto del 2007. Oggi le felci (Pteridium aquilinum, pianta rifiutata dal bestiame e velenosa che si instaura sui pascoli non utilizzati) presenta una copertura del 100% su diversi ettari, risultato della precedente gestione. Un danno grave e difficilmente reversibile. Siamo nelle valli del Bitto ma, si usavano mangimi e il "carro di mungitura"

"Ormai per i pascoli è tardi"
La situazione è migliorata dopo la prima settimana di agosto, le piogge hanno consentito la ricrescita dell'erba (il ricaccio) sotto la "paglia". Ma ormai era troppo tardi. Certo, qualcosa si è salvato ma alla metà di agosto le vacche non possono certo recuperare la produzione. Questa storia dovrebbe essere recepita come una parabola, come un esempio di come le cose non vadano. Nel mondo di casi come quello degli alpeggi e della siccità 2015. I sistemi agricoli industriali provocano l'effetto serra ma sfuggono ai suoi effetti. I sistemi contadini entro certi limiti mettono in essere tutte le loro capacità di adattamento ma spesso soccombono. È come chi ha l'aria condizionata e pretende di avere 20°C in ufficio (ma a volte anche meno) in estate (e 24°C in inverno!). Facendo così si  contribuisce ai consumi energetici, alle emissioni di CO2 e alla dissipazione di caldo nelle "bolle metropolitane". Si scarica su i meno fortunati e sulle generazioni a venire il suo egoistico benessere.  Lo stesso avviene con i sistemi agricoli. L'efficienza dell'agricoltura industriale è solo un'illusione dell'economia, "scienza" che sta distruggendo l'uomo e la natura. L'agricoltura contadina in termini di utilizzo di risorse, di bioeconomia, è più efficiente. Quanto al risultato complessivo il cibo a basso costo (economico, di mercato) è uno strumento per consentire al sistema di comprimere i redditi delle "classi popolari" (nelle quali sta sprofondando l'ex ceto medio impoverito e ampliare la disoccupazione strutturale.  E allora che fare? Quello che è nelle nostre possibilità. Innanzitutto sostenere le produzioni agricole non industriali. Come il bitto storico. Un simbolo. Ma i simboli contano.

sabato 22 agosto 2015

Dalle Puglie alle Orobie con la mucca per la gara di mungitura



Il 20 settembre a Lenna (Bergamo) la seconda edizione. Tra i concorrenti che arriveranno col proprio animale un mungitore foggiano Dall'estero attesi indiani, olandesi, svizzeri, romeni e austriaci

Diventa un appuntamento fisso il campionato mondiale di mungitura che si svolge presso l'azienda agrituristica Ferdy in Val Brembana, una valle che con il latte ha profondi legami. E ha anche profondi legami con il bitto storico, tanto che su diversi alpeggi dell'alta Val Brembana si produce il pregiatissimo formaggio. Attesa quindi non solo una più estesa partecipazione di mungitori da altre regioni e paesi ma anche di "ribelli del bitto" che fanno della mungitura a mano uno dei loro emblemi 

Arriverà direttamente da San Nicandro Garganico, in provincia di Foggia, dopo aver percorso con la sua vacca 800 chilometri. A poco più di 30 giorni dall'evento, un ventisettenne pugliese è a oggi il concorrente “vacca–munito” che arriverà da più lontano per partecipare alla seconda edizione del Campionato del mondo di mungitura a mano. Attraverserà l'Italia con la sua fedele mucca pur di poter mungere il proprio animale alla sfida mondiale che si disputerà il 20 settembre all'agriturismo Ferdy di Lenna, in Val Brembana, provincia di Bergamo. Perché, come ben sa ogni mungitore, la vacca riconosce il proprio padrone ed è certo meglio disposta a fornirgli il latte.
L'anno scorso presero parte concorrenti anche da India, Romania e Svizzera e da una decina di regioni italiane, Sicilia compresa. Con le vacche, per evidenti ragioni di distanza e per i problemi legati al superamento delle dogane, fornite dal comitato organizzatore. E l'eco mediatica del campionato fu internazionale, dall'America all'Australia. Quest'anno il parterre di concorrenti stranieri si arricchirà di mungitori olandesi e di lingua tedesca.
Quest'anno l'obiettivo è superare gli 8,7 litri munti in due minuti, performance di Gianmario Ghirardi di Malonno (Brescia), vincitore lo scorso anno del trofeo “Secchio d'oro – Formaggi Principi delle Orobie”. Patrocinato dal padiglione Italia di Expo 2015 e organizzato dall'associazione “San Matteo – Le Tre Signorie”, il campionato mira a valorizzare una pratica antica, quindi un'agricoltura sana e sostenibile. Vacche, mungitori e formaggi saranno i protagonisti. Quest'anno la sfida si inserirà in una due giorni di festa, dedicata alla biodiversità delle Prealpi Orobie (vacche, capre e mais autoctoni), con contorno di sapori e tradizioni.
Iscrizioni al campionato scrivendo a campionatomungitura@gmail.com (nome, cognome, data di nascita, età, indirizzo, numero di cellulare e indirizzo mail).

In allegato pdf l'ANNUNCIO dell’evento e foto della prima edizione (altre foto sulla pagina Facebook)


News su gruppo Facebook: Campionato del mondo di mungitura a mano


venerdì 21 agosto 2015

Forme in dedica: la rivoluzione del Bitto storico

La forza di una piccola produzione tradizionale (e perciò eversiva, che sfida le leggi del mercato e i poteri forti) sta nell'innovazione. Un paradosso? Affatto.
La prima innovazione in un mondo di plastica, di apparenza, di liquidità consiste nell'ancoraggio a valori solidi, a tradizioni che consentono di rifarsi alla forza e alla lezione dei tempi lunghi, a risorse di lungo periodo.  Un modo per guardare a dove si viene per riuscire a puntare ad andare oltre una realtà schiacciata sul presente (e sul profitto massimo e immediato). Ma basta riproporre la tradizione? No, va interpretata nelle forme, contesti, opportunità del presente.  La realtà storica offre anche in contesti apparentemente disperanti degli appigli, delle vie d'uscita, delle possibilità di alternativa. E' quello che fanno i "ribelli del bitto"  raccogliendo la sfida di un mondo globalizzato e integralmente mercificato.

Non si chiudono (e non si sono mai chiusi in vent'anni di lotta) nella nostalgia, nel lamento, nell'autocompatimento del "lassù gli ultimi". Sperando nell'elemosina. Hanno deciso di combattere la loro guerriglia con tenacia, accusati da tanti, che a parole ne condividono i valori, di essere un po' troppo incazzosi, con il pugnale tra i denti ecc.  In realtà, però, i ribelli combattono più spesso  con le armi dell'ironia e della fantasia. Quali che siano le armi a disposizione (il potere economico e politico non ne lascia molte ai ribelli) essi  combattono da vent'anni a questa parte e danno un fastidio enorme ai poteri forti.
Paradossalmente per dei partigiani della tradizione l'arma più efficace da essi usata è la creatività dell'innovazione. Unendo la "retroinnovazione" (la straordinaria novità del ritornare ad una produzione basata sull'erba e sui microrganismi "selvatici" del latte) a quelle innovazioni commerciali e sociali che offre l'era di internet e dei social networks. Ovvio che così si sono creati tantissimi nemici che non hanno mai smesso di cercare di distruggerli e di combatterli (anche dopo una "pace del bitto" più formale che sostanziale). Fastidio a chi vuole sciogliere nell'acido dell'omologazione industriale e consumistica quanto rimane di legato a forme preindustriali, artigianali nella produzione agroalimentare. Fastidio  a quelle istituzioni (paravento di lobby locali e non) che continuano a far girare in vortici di clientelismo e sprechi grandi volumi di denaro pubblico estorto a un sistema produttivo indebolito dal parassitismo, dalle corporazioni, dalla sudditanza all'Europa. Il Bitto storico, i ribelli del bitto sono una pietra di scandalo. Le istituzioni sprecano fiumi di denaro con la scusa di promuovere i territori e le produzioni (in realtà per oliare canali clientelari) i ribelli, invece, accedono a canali televisivi europei senza versare un euro.  
Come fanno a resistere i ribelli? Con l'arma del prezzo etico, del prezzo sorgente, di veronelliana memoria, che riconosce al primo produttore (che fornisce il formaggio fresco) una remunerazione nettamente più elevata del "mercato" ma indispensabile a compensare i maggiori costi di un prodotto "buono, pulito e giusto", di un prodotto che rispetta il pascolo, l'animale, la cultura ancestrale, la dignità di "maestri casari".  Sappiamo che il mercato, invece, tiene bassi i prezzi ma distruggendo volutamente valori ecologici e umani. 
Non è finita. Per ottenere un prodotto straordinario (nel senso di non ordinario, di non piegato alle logiche di massificazione e di distruzione della qualità artigianale) serve che anche tutta la lunga fase di produzione nella cantina di stagionatura sia all'altezza. Niente celle frigorifere quindi, ma cantina naturale. Il raffreddamento e la regolazione dell'umidità si ottengono regolando le bocchette di areazione (naturale).  Per ottenere un formaggio che stagiona degli anni è necessario sottoporlo a continue ed attente toelettature. Non usando una "cella" se l'umidità di alza troppo (vedi la piovosissima estate 2014) le forme vanno continuamente pulite dalle muffe. Poi ci sono i costi (salati) dell'affitto dei locali, gli adempimenti fiscali, previdenziali, normativi che pesano come macigni sulle piccole aziende. Come si fa a restare in piedi? Comunicando al consumatore che questo prodotto è extra-ordinario e che merita prezzi extra-ordinari e - soprattutto - mantenendo un livello di qualità che si traduce in esperienze di consumo altamente gratificanti.
Non basta, però, mantenere un prezzo di vendita elevato, bisogna anche vendere in modi nuovi, sfruttando al massimo ciò che il Bitto storico rappresenta, valorizzando la sua identità. Ed ecco allora che unendo l'antico (la personalizzazione del prodotto e del rapporto con chi lo acquista) con il moderno (internet e i social networks) il Bitto storico si è inventato una nuova forma di vendita: l'acquisto anticipato (anche di anni) delle forme in dedica. 

Oggi sono centinaia di forme di Bitto storico in dedica. La crescita di questo canale è promettente. Vergate a mano con inchiostro di mirtillo per essere dedicate ad un'associazione, ad un matrimonio o ad una ricorrenza famigliare, ad un ristorante, a un gruppo di amici. Non è la "personalizzazione" anonima del prodotto industriale (come quando scegli l'allestimento dell'auto su internet) ma una vera e propria decostruzione della forma merce, quella forma che la modernità e il capitalismo ha generalizzato soppiantando tendenzialmente con la nuda e anonima compravendita a prezzo di mercato tutti rapporti umani precedenti.  Rapporti basati su relazioni che lasciavano ampio spazio (pur non mancando in alcune forme sociali elementi di sfruttamento) al dono, alla redistribuzione, alla reciprocità.
E' una forma di scambio che ritorna ad essere una relazione personalizzata. Il prodotto non è staccato dal produttore artigianale (che resta visibile)  e dal luogo dove il prodotto nasce (il pascolo) ed "evolve" e invecchia (il santuario del bitto). Gli artigiani che producono e curano il Bitto storico hanno un nome e un cognome e una faccia. Chi entra nel Santuario ottiene spiegazioni, dialoga con chi non è certo un "venditore".

Chi acquista le forme in dedica (spesso per donarle) entra in una relazione calda. Le forme vengono invecchiate nella Casèra di Gerola Alta a fronte di un modesto costo di mantenimento che copre le assidue cure. Esse  possono essere costantemente controllate (in foto) sul sito internet del bitto storico o fatte oggetto di visita dal vivo nel Santuario del bitto storico. Raggiunta la stagionatura desiderata o in occasione di una ricorenza importante si ritira la propria forma in dedica per una…. buona degustazione che diventa un evento non di "consumo" ma di convivio.
Per acquistare o regalare una forma personalizzata contattare  il Centro del Bitto Storico di Gerola Alta (meglio recandosi di persona, il viaggio merita) 


Rivelazioni dei "ribelli": Eataly nuove gaffes sul bitto



Eataly non ne esce dalla questione Bitto. Ad ogni giro di "correzioni", "spiegazioni", "giustificazioni" si conferma che c'è qualcosa che non quadra. Non quadra con quel ruolo di "ambasciatrice del gusto" di cui Eataly si arroga  fingendo persino di sostenere la filosofia di Carlin Petrini del "buono, pulito e giusto".

Ma i "ribelli del Bitto" possono smentire carte alla mano che Eataly sia coerente con tale filosofia.  Distinguiamo però quello che riguarda il Bitto in generale e il Bitto dop in particolare da quello che riguarda il Bitto storico. Vediamo prima ciò che riguarda il primo. 

Non ci siamo. Non si presenta il bitto così

Il Giorno (vai a vedere) ha svelato l'origine del Bitto venduto nel negozio Eataly di NY. E' valtellinese ed è dell'azienda di Berbenno che carica l'alpe Prato Maslino, l'unico bitto bio, come avevamo noi stessi indicato nel post del 16 agosto (vai a vedere). 




Peccato che, come dimostra la foto sotto riportata da il Giorno, la forma in questione, sia per l'assenza di elementi di identificazione che per la tipologia della crosta, non trasmetta al consumatore una corretta idea di come deve essere e presentarsi il Bitto.

Eataly ha giustificato il cartellino con la dicitura "Beeto" dicendo che si tratta di "educazione fonetica" del consumatore (non rendendosi conto di quanto sdrucciolevole e insidiosa è la strada della storpiatura delle denominazioni di origine Dop proprio dove la legge europea non può proteggere da abusi).Il fatto che le leggi americane non impongano il rispetto delle norme con cui in Europa deve essere presentato un prodotto Dop non significa che esse non debbano essere rispettate. Un qualsiasi negozio Usa farà quello che gli pare, Eataly - invece - che si presenta come un'istituzione (e che ottiene evidenti appoggi politici in Italia) non può permettersi di essere meno rigorosa. Anzi, proprio per "educare" il consumatore americano dovrebbe essere ancora più attenta.

Il disciplinare di produzione del Bitto dop (vai a vedere) prescrive: "Aspetto esterno: crosta compatta di colore giallo paglierino che diventa più intenso con la stagionatura, di spessore compreso fra 2 e 4 millimetri"

Che il Bitto della foto, sia pure valtellinese, corrisponda al Bitto dop nel suo aspetto esteriore (che è ciò che il consumatore coglie con la vista) lasciamo decidere a lettori.

Saranno la ditta fornitrice, Eataly e il Consorzio ufficiale di tutela del bitto (Ctcb) di Sondrio che dovranno chiarire le cose tra loro.

Noi del Bitto storico non siamo direttamente implicati nella questione anche se non ci fa certo piacere che l'immagine del Bitto in generale, in questa storia di Bitto piemontese, Beeto, Bitto con aspetto non da Bitto (e senza elementi di identificazione della Dop), non ne esce certo bene.

I veri amareggiati sono i produttori storici del Bitto, presidio simbolo di Slow Food

Ma le cose non finiscono qui. E' Eataly che maldestramente chiama in causa direttamente il Bitto storico presidio Slow Food commettendo un grave errore perché in questo modo offre il destro ai produttori del Presidio Slow Food che rivelano il loro rapporto con Eataly. 

Dice Dino Borri, head buyer Eataly Usa interpellato da Il Giorno: "Le parole che ho letto in questi giorni mi hanno personalmente amareggiato. Sono quasi 20 anni che cerco in tutti i modi di portare avanti la filosofia del "buono, pulito e giusto".   



Paolo Ciapparelli, il guerriero del Bitto

In questo modo Borri chiama in causa Slow Food, Petrini, i presidi. Forse non sa che i produttori del bitto storico sono non solo amareggiati, ma amareggiatissimi (per non dire altro) nel confronti di Eataly. Il Bitto storico da 15 anni è un presidio simbolo della chiocciola ma Eataly cosa fa?




Per anni nel negozio di Torino a Eataly si sono proiettati video con il Bitto storico e con il "guerriero del bitto" (Paolo Ciapparelli) senza che il Bitto storico venisse acquistato. Poi con l'inaugurazione del negozio allo Smeraldo a Milano sembrava si aprisse la possibilità di un rilancio di rapporti. All'ingresso del grande negozio c'è una maxi mappa della Lombardia con i "prodotti di eccellenza". In Valtellina sono collocati Sfurzat (il vino della Negri) e il Bitto storico. Peccato che il Bitto storico non sia in vendita. E come mai? Perché l'azienda del Farinetti tanto segue la filosofia millantata da Borri che voleva imporre ai produttori del Presidio Slow Food un prezzo sottocosto. Insomma il filantropo Farinetti voleva aiutare i produttori del Presidio Slow Food a ... morire (per chi fosse interessato ci sono le "carte" a cantare" su questa vicenda). Il filantropo Farinetti, vate dell'agroalimentare di eccellenza, acquista Bitto dop, ovvero quello che - con una modifica del disciplinare di produzione, formalizzata nel 2006 dopo 10 anni di dop - utilizza i mangimi e i fermenti industriali e può anche non usare una goccia di latte di capra. Il tutto in spregio alla tradizione (motivo per cui i "ribelli" si sono resi autonomi e hanno costituito il Presidio Slow Food).  


Forse sarebbe stato meglio tacere.




mercoledì 19 agosto 2015

Eataly NY versus Bitto. Perseverare è diabolico

Dopo le roventi polemiche e gli sfottò su Eataly (e il guru Farinetti) nel negozio Eataly di New York è stata praticata una "correzione" alle gaffes che massacravano l'immagine del Bitto (segnalata da il Giorno). Però nel tentativo di mettere una pezza ai allarga la falla dimostrando che il difetto... è nel manico.

Da un presunto Bitto indicato come piemontese, ma dall'aspetto "giusto" (vedi post precedente di ribellidelbitto), si è passati - stando alle foto riportate da il Giorno - ad un non Bitto indicato ora come lombardo ma dall'aspetto... piemontese. La telenovela di Eataly New York, la più grande vetrina del Made in Italy continua. 

Saremo "incazzosi" e ribelli ma chi se ne intende di formaggi non potrà non convenire sui nostri rilievi, di natura squisitamente tecnica. 

Nel Bitto la crosta si presenta sottile e gialla, si ispessisce e assume una colorazione scura (ma uniforme) con l'invecchiamento (parliamo di anni). E' il risultato di una costante raschiatura a secco che fa parte integrante del ciclo di produzione del Bitto. La crosta pulita (anche per evitare i danni degli acari) è un vanto e un emblema del Bitto. E costa fatica mantenerla. 



Nella foto del Beeto di Eataly New York (a sinistra) la crosta (e la pasta) hanno le caratteristiche del vero Bitto. Nella foto a destra, con il cartellino corretto) la crosta denuncia in modo lampante che non si tratta di Bitto. Cosa ci racconta questa crosta? 

1) Che le efflorescenze fungine di colore grigio chiaro su una morchia di colore bruno-rossiccio non sono state eliminate come avviene nella stagionatura del Bitto; 





2) Che il formaggio in questione è stato mantenuto in ambiente molto umido e/o trattato con spugnature, tutto il contrario di quanto avviene nella cura del Bitto.

Paradossalmente il primo "Bitto" (ma senza le etichette e i marchi ufficiali del Consorzio Ctcb e del Consorzio bitto storico non è possibile qualificarlo tale in ogni caso) era credibile e lombardo, sia pure indicato come Piemontese, il secondo indicato come "Lombardo" presenta una crosta tipica di alcune tome (come quella di Gressoney o alcune piemontesi).




Bitto dop del Consorzio Ctcb

Aggiungasi che il mantenimento del formaggio in un ambiente molto umido e l'attività fungina stessa agiscono nel senso di accelerare la maturazione e l'intensità organolettica. Fattori di cui il Bitto non ha assolutamente la necessità perché punta sulla lunga stagionatura. Un formaggio con la crosta di quello venduto da Eataly NY come "Bitto" non dovrebbe avere il diritto di chiamarsi tale. 



Bitto dop "Valli del Bitto" (menzione precedente a "Bitto storico") con il colore scuro della crosta che viene assunto dopo non pochi anni di stagionatura

n.b. Il Bitto per essere tale e non tarocco deve o avere il marchio bitto e la pelure rossa (Consorzio Ctcb) o, vergata a mano con inchiostro di mirtillo, la dicitura "Bitto storico" e provenire da uno dei 12 alpeggi ufficiali il cui nome (Bomino soliva, Ancogno soliva, Parissolo, Cavizzola, Trona vaga, Trona soliva, Valvedrano, Pescegallo , Foppe, Varrone, Orta vaga, Orta soliva) è impresso sullo scalzo insieme al bollo Ce e alla data. In assenza di questi elementi trattasi di taroccatura. Siamo sempre in attesa di giustificazioni a questi rilievi da parte di Eataly.

domenica 16 agosto 2015

Eataly New York: una serie di gaffes sul Bitto


Nel negozio Eataly di New York il Bitto vittima di una serie incredibile di gaffes che la dicono lunga sul mito di Oscar Natale Farinetti "salvatore della patria" del Made in Italy e delle eccellenze alimentari artigianali. Per di più le gaffes riguardano un prodotto che è uno dei più prestigiosi presidi di Slow Food.   In questi giorni un morbegnese in visita a New York è passato dal celebrato negozio Eataly, una delle meraviglie della mela, sic. Ha scattato un paio di foto prontamente inviate al Centro del bitto di Gerola alta chiedendo lumi sul "bitto piemontese". Le foto sono state postate e ne è derivata una grandinata di commenti indignati.

vai alla pagina fb del bitto storico

Va bene che gli Usa sono la madre di ogni taroccatura e storpiatura dei prodotti alimentari italiani ma che a incentivare il malcostume sia Eataly di Farinetti... 
Analizziamo le foto. Qui c'è una forma di quello che  a giudicare dal colore, dallo scalzo, dall'occhiatura parrebbe senz'altro Bitto. Se non che, per facilitare la pronuncia il nome viene storpiato in Beeto. Invenzioni estemporanee di cui non si sente proprio il bisogno visto che molti in mala fede in Usa se ne approfittano.
In più si legge anche "Piemonte" come regione di origine del prodotto.  Piemonte? Di annessionismi sabaudi ne abbiamo avuto abbastanza nel 1859. Cos'è questa nuova "annessione" del Bitto, orobico e lombardissimo? 
Ma a ben guardare c'è dell'altro che non va. Si vede che il piatto è privo dell'etichetta rossa.


Non possiamo vedere se c'è o non c'è il marchio della dop ma la pelure non c'è. Quindi non è Bitto dop.


Le anime candide potrebbero pensare che sia Bitto storico l'unica altra denominazione legittimata ad utilizzare il nome Bitto in quanto Presidio Slow Food. Data la vicinanza tra la chiocciola e l'imprenditore parrebbe logico. Non è così. A parte che non c'è l'ombra di indicazioni circa la natura "storica" del Bitto in vendita (che viene peraltro denominato Heritage Bitto sul mercato internazionale), c'è un piccolissimo dettaglio: Farinetti non compra Bitto storico del presidio Slow Food perché... costa troppo. 
Sarebbe disposto ad acquistarlo sottocosto ma i produttori di essere "aiutati" a... morire da tale filantropo non ci pensano proprio. Quindi non è Bitto storico quello in vendita a Eataly a New York. E allora cos'è? Quello della foto sopra può essere Bitto ma non può essere venduto come Bitto a meno che... si voglia incentivare la fiera americana del gioco al massacro delle denominazioni d'origine.




Non è finita. Il formaggio "Piemontese" venduto come Bitto è qualificato anche come "biologico". Fatto molto strano e dubbio perché c'è una sola azienda che produce Bitto dop a Berbenno (alpe Prato Maslino) ed è aderente al Consorzio, quindi il prodotto dovrebbe avere l'etichetta rossa.
Dulcis in fundus guardate un po' voi se questo Bitto, piemontese e bio venduto porzionato vi sembra uguale alla forma di prima. Molto chiaro, senza occhiature, crosta sottilissima e pare anche di leggere una lettera sulla crosta (che non è quella del marchio dop).
A fianco di questo "bitto" un Vezzena di Lavarone, nota località trentina, anch'esso qualificato piemontese. Non è una svista quindi ma un errore ripetuto (ed errare è umano mentre perseverare....).
In due foto una collezione di cose che non vanno. Invece di promuovere una corretta conoscenza del Made in Italy caseario d'eccellenza si contribuisce alla confusione. 





venerdì 14 agosto 2015

Heritage bitto cheese alpine pastures

Just 127 km from the Expo site a chance to discover a reality that has become an international case of good clean and fair food




During the summering season you can visit the alpine huts where Heritage bitto cheese is produced. For any information contact the Bitto center (Centro del Bitto) in Gerola alta (english spoken), where a stop is a must. It is impossible to understand what heritage bitto cheese means if you do not visit the ripeninig cellars where heritage bitto is mantained. It is something unique, a living museum notwithstanding the premises are only few years old. These cellars are known as the Bitto cheese Sanctuary.
Here the pieces produced on the alpine pastures are kept for years. The knowledge of individual cheesemakers and pastures begins from tasting cheese from different alpine pastures. Their flavors are always distinguishable
The visit of the "center" is also an opportunity to taste the Mascherpa (whey cheese obtained by adding goat milk) coming daily from the pastures. Do not forget the specialties of chef Albino as well as the artisan cured meats (of the highest quality). 
For accommodation and full meal there are some hotels, bed & breakfast and mountain huts. Valli del Bitto Hotel is just in font of the "center" and the Tre Signori within walking distance. Other accomodations in Gerola alta and in the area are shown in the maps
along with contacts and info (click on the icons). Enjoy your visit. 

Alpeggi del Bitto storico

A soli 127 km dall'Expo la possibilità di visitare una realtà che è diventata un caso internazionale di cibo buono pulito e giusto




Durante la stagione d'alpeggio si possono visitare i siti di produzione del bitto storico. Per avere informazioni rivolgetevi al Centro del Bitto a Gerola alta, dove una tappa è d'obbligo. Non si comprende la realtà del Bitto storico se non si visita la casera di stagionatura: un vero unicum, un museo vivente per quanto di recente realizzazione (chiamato Santuario del Bitto). 
Qui le forme prodotte sugli alpeggi sono conservate per anni e qui inizia la conoscenza dei casari e degli alpeggi: attraverso i sapori (sempre distinguibili) delle forme provenienti dal singolo alpeggio. Ma la tappa al "Centro" è anche occasione per degustare oltre al Bitto storico la mascherpa (ricotta ottenuta con aggiunta di latte di capra) freschissima degli alpeggi e le specialità dello chef Albino oltre a salumi artigianali di primissima qualità. Per pernottare e per pranzi completi (da ristorante) vi sono l'Albergo Valli del Bitto, proprio di fronte al "Centro" e il Tre Signori (a pochi passi), i rifugi Salmurano, Trona Soliva, San Marco 2000  

Tutto è indicato nella mamma con i contatti e le info (cliccare sulle icone). Buona visita

In agosto il Centro è aperto tutti i giorni. Mattina e pomeriggio