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mercoledì 23 novembre 2016

Valtellina che gusto... industriale



di Michele Corti

La promozione istituzionale agroalimentare valtellinese continua a ricalcare i cliché del Mulino Bianco, delle favole colorate che nascondono ben altre realtà . Uno stile industriale di marketing del fasullo per promuovere un agroalimentare industrializzato, banalizzato, omologato. Sperperando i soldi di chi paga le tasse.  Ma non basta. Dopo aver espropriato il bitto storico del nome "bitto" la promozione "ufficiale", non contenta di raccontare banalità, barzellette insulse e cose ben diverse dalla realtà, continua a mimetizzare il bitto "legale" (in forza delle falsità sottoscritte dalle istituzioni in sede di istituzione della dop) ovvero quello "Nuovo omologato" con lo "Storico ribelle" (il vero bitto che si fa come secoli fa). Lo fa anche in modo sfacciato e maldestro (copiando testi e spacciando foto dello storico ribelle per quello "istituzionale"). 


(23.11.16) Il sito Valtellina che gusto (e la relativa pagina facebook), pur di natura istituzionale (il distretto agroalimentare, sostenuto da risorse pubbliche) si distinguono per la partigianeria contro un gruppo di produttori e un'impresa non sovvenzionata dalla mano pubblica: i "ribelli del bitto".  A chi lo scorso giugno ha partecipato a una discussione sul bitto  esprimendo pareri negativi sulla dop il moderatore rispondeva che erano "slogan preconcetti" e che "la querelle è autoreferenziale e specialistica e non si risolve sui social". Ma se fosse autoreferenziale e "specialistica" perché suscita tanta passione e tanti semplici cittadini intervengono? A Valtellina che gusto, che deve fare il lavoro (non bellissimo) per cui è pagata andrebbe bene che la questione fosse trattata a Roma, a Milano o al massimo a Sondrio ma al chiuso delle stanze della Camera di commercio, della Coldiretti, del Consorzio di tutela, con gli "esperti" (ovvero i funzionari e quelli comunque pagati dalle istituzioni e dalle para istituzioni).



I saggi di discussione sopra riportati non tengono conto delle opinioni più "accese" di altri intervenuti che sono stati bannati (poi lo sono stati anche alcuni di quelli qui riportati ,"salvati" a suo tempo con lo screen-shot). E' bene che il contribuente valtellinese e italico sappi tutto ciò.

Il lupo non perde il vizio


Dalla primavera scorsa è però passato del tempo. Il 24 settembre il bitto storico ha celebrato il proprio funerale al salone del gusto di Torino annunciando che da quel momento diventava "storico ribelle". Una decisione sofferta ma resasi indispensabile dopo che anche l'assessore regionale Giovanni Fava aveva consigliato i ribelli a rinunciare al nome bitto dal momento che si rischiava la denuncia per frode in commercio.
Ognuno per la sua strada e nemici come prima? No. Il braccio comunicativo del "distretto agroalimentare" non rinuncia alla solita strategia di confondere il bitto dop con lo storico ribelle. Non gli è bastato rubare il nome a chi più di ogni altro aveva il diritto naturale di fregiarsene. No. L'agroindustria deve continuare a rubare l'immagine ai ribelli del bitto. Anche in senso letterale perché la foto qui sotto ritrae forme di storico ribelle nel Centro del bitto di Gerola alta. Una vecchia consuetudine che si sperava interrotta dopo che le strade del Nuovo omologato e dello Storico ribelle si sono completamente separate.





sopra: screen-shot (le pagine web si ritoccano e volano gli screen-shot testano)

Quella foto rubata, ma c'è di peggio...

Ancora più grave della foto rubata sono certe asserzioni contenute nel testo. Lasciamo perdere la stupidata del titolo: "Solo qui il latte ha il profumo dei pascoli" perché si commenta da sola visto che in altre valli e realtà fanno pascolo più che in Valtellina. Si commenta da sola, espressione com'è del marketing dello "sparala grossa basta che suoni bene". Se nel bitto dop il pascolo è "integrato" con non poco mangime nel casera dop il pascolo è limitato a qualche giornata in autunno, ma più per far prendere aria alle bestie prima dell'inverno che per farle mangiare.

Questo è storico ribelle. Non è il nuovo omologato. 

Si spacciano per lo storico ribelle

Ma veniamo a certe asserzioni letteralmente rubate dal disciplinare dello storico ribelle. "Lavorato sul posto subito dopo la mungitura" è lo storico ribelle (che aggiunge "entro mezz'ora". Il bitto dop si guarda bene dall'imporre un simile vincolo perché in diverse situazioni dove si produce bitto dop il latte viaggia in serbatoi o bidoni per chilometri. Altro che "sul posto"! Ci sono anche caseifici che producono bitto  (sic)  dop ricevendo latte da più alpeggi e da parecchi produttori. Quando arriva in latteria quel latte non è ovviamente lavorato subito.  Si insiste poi che le "forme possono essere lasciate a maturare fino a 10 anni". Ma questa "proprietà" è dello storico ribelle tanto è vero che nel testo dell'accordo bidone siglato nel novembre 2014 (con la firma della Camera di commercio e del Consorzio casera e bitto dop) 

... si asserisce che in linea generale, gli associati al Consorzio per la Tutela dei formaggi Valtellina Casera e Bitto finalizzeranno la loro attività alla commercializzazione del Bitto DOP entro l’anno di stagionatura; l’attività degli aderenti al Consorzio Salvaguardia Bitto storico sarà prioritariamente rivolta, invece, alla commercializzazione del prodotto con stagionatura oltre l’anno.

Ogni tanto si vedono delle forme "antiche" di bitto dop. Ma  queste rarissime forme non sono maturate per tutti gli anni dalla loro produzione all'apertura. Sono state tenute in celle a 7°C . Che è cosa diversa dal maturare in una cantina naturale come quella del Centro del bitto. 

L'ignoranza e l'arroganza autoreferenziali al potere

Vale la pena  esaminare anche altre barzellette contenute nel testo, espressione di superficialità quando non di completa ignoranza della storia rurale del territorio. Si vede che per fare la "promozione agroalimentare istituzionale"  la cultura è un optional, basta essere allineati ai desiderata dei poterini forti, e vendere un po' di fumo.  All'inizio del testo si sostiene che bitto dop e casera dop originano dalla "tipica azienda di montagna", transumante d'estate e stanziale in inverno. Nulla di più falso. Il formaggio "della valle del Bitto", chiamato così (e non "Bitto") sino a tutto l'Ottocento non origina da "aziende agricole" per il semplice motivo che le aziende agricole non esistevano. L'allevamento (e il caseificio) era praticato secondo due modalità ben distinte: l'economia di sussistenza (che non presupponendo commercio non definisce un'azienda) e l'economia dei caricatori d'alpe. Questi ultimi erano imprenditori che pagavano gli affitti dell'alpeggio, pagavano i pastori (quando non erano dei "soci" con bestie proprie), pagavano i tanti piccoli proprietari delle vacche che in estate restavano a casa a svolgere i lavori agricoli e affidavano le loro bestie - in cambio di denaro, tanto in base al latte prodotto - ai caricatori (i cargamuunt). Il formaggio "della valle del bitto" origina da questa economia imprenditoriale e commerciale. Era un vero prodotto di eccellenza che arrivava a Morbegno, Branzi, Bergamo, Lecco, Como, Milano, Venezia, Roma. Nulla a che vedere con formaggelle, formaggi magri e con gli stessi formaggi grassi (di minor pezzatura peraltro) prodotti fuori della zona storica (Val Lesina, valli del Bitto, val Tartano e, sporadicamente, anche ad Est sino ad Albosaggia). Parimenti falsa la seconda asserzione relativa al Casera dop. Questo formaggio è stato inventato letteralmente con la dop. Esistevamo tanti formaggi "di latteria", diversi per gusto, occhiatura, pezzatura. Da quando? Da quando si è iniziato a lavorare il latte in inverno il che equivale a dire dalla fine dell'Ottocento quando sono nate le latterie turnarie o sociali.  Prima dell'istituzione delle latterie sociali i piccoli proprietari delle bovine facevano in modo di farle partorire in primavera per avere latte sul maggengo (e produrre dei formaggi come il matüsc, la feta, la magnuca, la scimuda per autoconsumo) e poi in alpe dove, come abbiamo visto tanto latte produceva la vacca tanti più soldini (e allora erano bei soldini) incassava il padrone. In inverno la vacca era tenuta a stecchetto perché non c'erano abbondanti scorte di fieno ma doveva contentarsi di fronde di frassino essiccate, di fieno selvatico (di monte e di bosco). Nelle annate peggiori si tritava la vriga (brugo) tanto per calmare la fame delle bestie. Non c'erano le condizioni per produrre latte. Il fieno prodotto sui maggenghi era consumato sul posto, non nelle stalle di fondovalle o mezza costa (dove peraltro la famiglia contadina-allevatrice risiedeva per pochi mesi). 

Quelli che oggi sono prati, ancora nell'Ottocento, erano incolti, soggetti alle esondazioni dell'Adda (non arginato) o - sui versanti e nelle convalli - erano campi coltivati per produrre orzo, segale, grano saraceno, fagioli ecc. La gente doveva prima mangiare. Verso la fine dell'Ottocento tutto cambia in seguito al miglioramento dei trasporti, alla disponibilità di derrate alimentari sul mercato (farina di mais), alla necessità di inserirsi in un0'economia monetaria. Bisognava fare più burro e vendere più vitelli per pagare le tasse e quei beni di consumo (tela di cotone, farina) che non erano più autarchici. Aumentando i prati e le vacche in inverno si ha a disposzione più latte per produrre formaggi (ancora per autoconsumo per lo più) e burro (in prevalenza per la vendita). L'economia del burro è stata il cardine dell'economia famigliare per molto tempo e spiega perché molti formaggi erano magrissimi (verdi, da rompere con il martello). In intere valli come la Valchiavenna il formaggio grasso (ma anche semigrasso) era sconosciuto. Il burro ha perso importanza gradualmente, poi ha avuto un colpo di grazia con la margarina e le "norme igienico-sanitarie". 

Il Casera dop attuale  èin ogni casomolto più grasso dei vecchi formaggi invernali "di latteria". Si può sempre vantare delle ascendenze. Formaggi si sono fatti da migliaia di anni, così come tutti discendiamo da qualche Eva. Ma parlare di storia (documentata) a proposito di formaggi è altra cosa. Lo storico ribelle è il diretto e legittimo discendente del "formaggio della Valle del Bitto" documentato dal Cinquecento (lui si). Sappiamo come veniva fatto, che peso aveva cinque secoli fa. Sappiamo che veniva ottenuto aggiungendo al latte vaccino il 20-30% di latte di capra (altro che "è ammesso fino al 10% come recita il disciplinare del bitto dop!). Casera e bitto dop fatti con mangimi e fermenti sono pallidi discendenti di qualcosa di peraltro non molto simile. Sono formaggi omologati, il primo decisamente industriale, prodotto con moderne tecnologie di coagulazione in continuo. Un casera giovane è identico a un montasio, piave, crodo (sfido a una degustazione alla cieca), altro che "unico". Altro che "di pascolo". A furia di questo marketing d'accatto la produzione agroalimentare perde di valore trascinando nel baratro di prezzi irrisori anche i buoni prodotti artigianali. Il contribuente sottoposto ad un'oppressione fiscale tirannica sappia che i suoi soldi continuano ad essere sperperati per... danneggiare la vera agricoltura, intercettati da quelle tante agenzie e soggetti che si interpongono tra le istituzioni erogatrici della spesa pubblica e i produttori agroalimentari. Il grosso del flusso non "tocca terra" ma viene intercettato da apparati autoreferenziali capaci di dettare alla regione le direttive per la spesa.


venerdì 18 novembre 2016

Ribellarsi è giusto... e paga


di Michele Corti

Lo storico ribelle, liberatosi del nome "bitto" che ormai procurava solo grane (ed esponeva alla minaccia permanente di denuncia per "lesa dop") va meglio di prima. Chi ragiona restando nelle coordinate della vecchia politica pensava che fosse un salto nel buio. Invece i sostenitori aumentano e lo storico ribelle sbarca in nuovi prestigiosi templi del gusto. Una storia eccentrica che non indica soluzioni riproducibili? Tutt'altro. Di fronte a un mercato che umilia i produttori la strada tracciata dallo storico ribelle diventa un modello. Non è necessario produrre capolavori, quello che conta nell'esperienza dello storico ribelle è un messaggio di qualità che deriva in primo luogo dalla credibilità, dal rispetto di principi etici. Così il formaggio ribelle (ma non più fuorilegge) si è chiamato fuori dalle logiche senza speranza del mercato globale.

... il giorno radioso di settembre in cui scese le scale della cantina di Cavergno con il formaggio in spalla buono da vendere, quello stesso formaggio che aveva trasportato per ore durante l'estate, e che suo padre aveva scaldato con la legna che avevano tagliato, seccato, portato in cascina, con il latte degli animali che avevano pascolato e cercato e munto due volte al giorno, sotto la pioggia e tra i nevischi di agosto, alzandosi alle quattro di mattina, a volte stremata lavando la caldaia e le conche, cucinando polenta che non aveva quasi la forza di mangiare, tutto quel lavoro dentro quel formaggio, quel giorno di settembre dunque, quando posò la forma sul tavolo al prezzo di due e ottanta al chilo e Gelso il commerciante, che ci sapeva fare con la bilancia ad alleggerire il valore della loro fatica, davanti ai loro occhi, senza vergogna, senza un complimento, senza neanche toccarlo per vedere com'era bella la crosta, lavata e raschiata e spazzolata ogni giorno,  e la consistenza della pasta morbida al tocco (e che bontà se avesse assaggiato), lo propose ai compratori 'Sette e quaranta', quel giorno Emma sbottò in un esplosivo 'LADRO!' 

D.Femminis Chiara cantante e le altre capraie. Saga di donne strette tra le montagne e il cielo.Romanzo, Pentagora edizioni, Savona, 2016, pp. 74-75.


(17.11.16) La lettura del bellissimo romanzo ruralpino da cui proviene le lunga citazione, letto in questi giorni, ha coinciso con notizie sconfortanti sul mercato caseario. Anche le produzioni d'alpeggio e dei piccoli produttori di montagna sono state travolte da un'ondata ribassista delle quotazioni, trascinati dalla caduta del prezzo mondiale del latte nella scorsa primavera.

L'impressione è che letteratura sia spesso in grado  di penetrare la realtà delle cose in modo molto più scientifico della scienza (economica ma non solo), scienza che spesso non è altro che un modo sofisticato per legittimare lo sfruttamento. E l'ex bitto, ora orgogliosamente e con piena soddisfazione "storico ribelle", cosa c'entra? C'entra moltissimo perché se oggi non ci sono più Gelsi che frodano con la bilancia, c'è un "mercato globale" che è ancora più spietato. C'è il disaccoppiamento (per usare un termine in assonanza con le infauste politiche agrarie della UE) ormai abissale tra economia ed etica. L'ex bitto storico si è fatto conoscere e resiste, e si ribella, e resta in piedi in forza della sua temeraria affermazione di un principio etico. A dispetto di una politica, di una tecnocrazia, di un'economia corrotte.


Reincarnazione subito (come per il Dalai Lama)

Il bitto storico (pace all'anima sua) è stato seppellito a Torino il 24 settembre scorso. Nessuna lacrima però sul metaforico feretro perché c'è stata subito la sua reincarnazione nello storico ribelle, sempre più storico, sempre più a ragionar di secoli, di analisi di un lungo percorso da cui trarre insegnamenti per l'oggi e il domani, ma giovane e pimpante. Con gran scorno di tutto l'establishment politico-imprenditoriale valtellinese che da anni, con minacce, pressioni, inganni (i finti accordi) persegue l'obiettivo di cancellare la scomoda ribellione del bitto. Uno scandalo di insubordinazione ai poteri forti locali in violazione delle regole della costituzione non scritta che impongono ai sudditi di chinare la testa e accettare le scelte delle cupole.

Bergamo, sul sentierone  una mostra fotografica (a fine ottobre scorso)  celebra il formaggio d'alpeggio delle Orobie. Ciapparelli, l'icona vivente che guasta la digestione all'establishment valtellinese campeggia con le sue forme ribelli. Il guerriero del bitto è lì e non molla. Si rassegnino le vestali politicamente corrette (o corrotte?) dell'establishment


Nuova vitalità

È prematuro rivelare cosa si sta preparando per lo storico ribelle nei prossimi mesi ed anni. Presto, però, ci saranno grossissime novità, ancora più grosse di quelle che nei suoi dieci anni di storia del bitto storico hanno allietato i suoi supporter e fatto masticare amaro il "nemico", la folta schiera di sindaci, presidenti, direttori, amministratori, funzionari della Coldiretti, Camera di commercio,  Latteria sociale Valtellina , Associazione allevatori, Comunità montana,  comuni (Albaredo e  Gerola che hanno tradito il bitto storico - inizialmente sostenuto a spada sguainata - quando hanno capito che non si lasciava strumentalizzare dai piccoli feudatari locali).

Intanto, però, possiamo dire che non sta venendo meno (anzi...) il sostegno economico da parte di vecchi e nuovi supporter economici. Persone per bene, che non osano sfidare apertamente la cupola, ma che sostengono con convinzione chi lo fa. Nel frattempo le prospettive commerciali si aprono verso nuovi prestigiosi sbocchi. Nella foto (sotto) vediamo schierate delle forme di storico ribelle pronte per essere spedite a Milano, Roma e Parigi. Altro che Eataly che voleva lo "storico" a un prezzo da strozzini, sotto costo! I nuovi Gelso politicamente corretti!

Il cambio di nome sta aprendo le porte a primari operatori della distribuzione (quelli più seri di Farinetti e della sua progenie, forse si intuisce chi) che, in precedenza, temevano che un "bitto storico" - notoriamente non in regola con la dop - potesse fare da parafulmine... e attirare grosse grane.  Il tutto in un contesto in cui la realtà della produzione e del commercio caseario appare tristissima, come la storia del romanzo in apertura (ambientata per inciso  in valle Maggia, aspra valle alpina del canton Ticino nell'anteguerra).

In questi anni il bitto storico ha continuato a ritoccare all'insù  i listini mentre le quotazioni del formaggio calavano. Quest'anno si è toccato il fondo con svendite di formaggi di montagna (compresi quelli di buona qualità, artigianali) a tre euro il chilo.


I produttori umiliati

Il momento peggiore del mercato ha coinciso con il mese di giugno,  quando il prezzo europeo dei formaggi più industriali è sceso sotto i 2,2€/kg (ora è tornato sopra i 3). Temendo il peggio chi,  vedendo i prezzi continuavano a scendere, aveva tenuto il formaggio a stagionare (scontando calo peso e non solo)  condizionato e spaventato dai commercianti  coalizzati (non ruberanno sulla bilancia come il Gelso ma...) , ha poi svenduto intere partite prima che il mecato riprendesse un po' fiato. In perdita secca, tanto che alcune coop non pagavano più il latte.

Purtroppo in un mercato di vasi comunicanti chi non si sottrae (ma radicalmente, non con i pannicelli caldi dei mercatini)  alla dittatura del mercato globale paga lo scotto della perdita di valore di latte e derivati. Anche se è un piccolo produttore, anche se vende direttamente al consumatore, anche se  vende in alpeggio. Temendo di restare con scorte invendute e di dover svendere poi a prezzi irrisori preso per la gola. Anche in alpeggio. Qui si sono vendute formaggelle e stracchini a 6€ al kg. Quando sappiamo che insulsi latticini tecnologici prodotti con latte in polvere vengono venduti a prezzi ben superiori anche nella Gdo. Si può reggere così? Un figlio che deve decidere se proseguire nell'attività avita di fronte a questo avvilimento cosa può fare? Resiste solo perché i settori extra-agricoli espellono manodopera. Ma fino a quando? Il fatto è che con questi prezzi non si coprono neppure le spese, non solo i costi impliciti (che il contadino non calcola ma in qualche modo ci sono), anche quelli espliciti. Oggi si può cercare di aumentare i reimpieghi aziendali ma l'autarchia del passato (quando c'erano da pagare solo un po' di tasse, il sale, qualche oggetto di ferrarezza) è lontana. L'azienda è caricata di costi fissi, astutamente irretita in una rete di sudditanza industriale (e dal sapere tecnoscientifico e dai sistemi regolativi che sono solo comparti di un unico sistema).  Se poi ci sono dipendenti...

Viene da pensare che quello che, con una mano, il sistema offre (in cambio di riconoscenza/sudditanza politico-sindacale) alle aziende in termini di sostegno (Pac, Psr) se lo riprende con l'altra mano. A cosa è servito ingrandire, modernizzare, razionalizzare le strutture? Aumentare i volumi di produzione e le produzioni unitarie delle bovine? La risposta è sconsolante: da una parte a far guadagnare l'industria che fornisce i mezzi tecnici,  i servizi di consulenza, le burocrazie, dall'altra a far guadagnare l'industria di trasformazione e la grande distribuzione. La razionalità era dalla loro parte, evidentemente una "razionalità di parte".

Oggi, però, i profitti sono stati piallati anche per l'industria,  persino per la grande distribuzione (che, comunque, se la passano  meglio dei produttori agricoli). Chi ci guadagna allora? Viene da rispondere: quel mostro senza volto che si chiama Globalizzazione, Speculazione finanziaria, anche se poi chi maneggia con i future un nome e volto qualche volta l'ha e non si nasconde neppure, pretendendo persino di somministrare i suoi consigli o dettami ad un'umanità di sudditi (vedi quella brava persona di Soros). 


Chiamarsi fuori (ma come?)

Oggi non sono in difficoltà solo quei piccoli produttori che però restano con i loro prodotti e i loro prezzi agganciati a mercati che, come vasi comunicanti, sono collegati a quello globale. Sono in difficoltà anche le grosse aziende casearie, comprese le coop, che hanno sempre ricevuto (e continuano a ricevere) generosi sostegni pubblici. I costi di trasporto si sono ridotti, è vero, ma vendere grosse quantità impone costi elevati per l'ingresso e la permanenza (non a livello di nicchia) nelle catene della Gdo. Sono costi che si chiamano pesanti promozioni periodiche e tempi di pagamento dilazionati. Non meraviglia se quelle che un tempo era decantate come le via principe per ridurre i costi: le economie di scala, l'automazione dei processi, la produzione seriale, la standardizzazione diventano  oggi una camicia di forza nella quale le grosse aziende restano imprigionate.

Così si profilano due strade: volare basso, puntare su produzioni di piccola scala ma andanti, senza troppi rischi, presidiando con prezzi bassi un mercato di prossimità o quello degli ambulanti che si avvantaggia anche della crisi di rigetto degli ipermercati (che hanno visto crollare le vendite mentre i piccoli supermercati reggono) o ...puntare alto.  Da quest'ultimo punto di vista l'insegnamento che si ritrae dalla storia dell'ex bitto storico è esemplare. E può essere seguito (se no non si spiegherebbe l'accanimento del "sistema" contro di esso). Può essere seguito anche da chi fa un "latteria", una formagella, uno stracchino. Il "segreto" dello storico ribelle risiede in una qualità che è fatta di fedeltà alla tradizione e di rifiuto delle sirene dalla modernizzazione e "facilitazione" produttiva. Ma questo non avrebbe consentito di creare una leggenda (e di sopravvivere) se non c'era la credibilità, una storia di moralità, di rifiuto di compromessi, di rispetto per l'erba, gli animali, i produttori, la montagna, la storia, i consumatori. Un rispetto profondamente etico, caparbio come i vecchi contadini, anacronistico forse, ma proprio per questo spiazzante e vincente .


La storia della ribellione del bitto lascia intuire, anche alle persone semplici, come essa rappresenti una cosa bellissima. Non è una strada impossibile da seguire per altri produttori. E i ribelli (che non solo solo i produttori ma, forse anche di più di loro, quelli che impegnano tempo, preoccupazioni e denaro per sostenerli) sono pronti a dare una mano a chi vuole unirsi a loro. Unirsi per sostenere l'idea e la realtà di un'agricoltura e di prodotti etici che ricostruiscono le comunità, i valori, i saperi. Laddove la produzione globalizzata e i suoi terminali subalterni (i furbetti, i politicamente corretti - o corrotti ) fa il deserto .