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sabato 25 febbraio 2017

Il gran formaggio d'alpe orobico (per una storia a tutto tondo)


Il gran formaggio d'alpe orobico (per una storia a tutto tondo)

di Michele Corti

(21.02.17) Riflettendo su una storia di differenziazioni e perimetrazioni più o meno artificiose, sovrapposizioni, scambi di identità, emerge l'esigenza di una riconsiderazione complessiva di una vicenda casearia che ha spinto a concentrare l'attenzione (spesso conflittuale) sulle denominazioni: "branzi", "bitto", "formai de mut" (ma si potrebbero aggiungere anche i cru monoalpeggio, di cui il "camisolo" è stato precursore). Così, però, si è offuscato il valore d'insieme di una grande tradizione casearia. Essa oggi può essere interpetata in vario modo: se si tiene ferma l'importanza dell'aggiunta del latte di capra ( storicamente importante in passato su tutta l'area) e la ricerca dell'attitudine alle lunghe stagionature si ammirerà e premierà l'eroica tenacia dello "storico ribelle". Laddove, da oltre un secolo la tradizione di caseificazione d'alpe ha dovuto fare a meno dell'aggiunta del latte di capra (come in buona parte degli alpeggi della val Brembana, a seguito della proscrizione delle capre) l'espressione della produzione locale si incarna onestamente nel "formai de mut". 



Figura 1 - Consistenza del patrimonio caprino in alta Valbrembana tra Otto e Novecento

Il formai de mut  ha rinunciato con sana umiltà a proporsi a vertici di qualità raggiunti a suo tempo dal "vecchio bitto/branzi" (che erano la stessa cosa); si è limitato a fissare un minimo di stagionatura di 45 giorni (bitto dop minimo 70), ma anche una temperatura di cottura di 45-47°C (bitto 48-52°C) che preclude la lunga stagionatura. Ha anche rinunciato alla "veste tradizionale", ovvero allo scalzo concavo e ha puntato su pezzature più ridotte (bitto 8-25 kg, formai de mut max 12 kg). Nelle regole del formai de mut emerge una volontà di autolimitazione che segna la rottura con la tradizione, una rottura sofferta e obbligata. La tradizione non impediva di cuocere sino a 50°C, di produrre forme di 20-25 kg. Ol formài dè mut era prodotto anche nell'alta Valseriana, tanto è vero che ilformai de mut si chiama ufficialmente (e molto farraginosamente (formai de mut dell'alta Valbrembana dop). Quello seriano era prodotto nello stesso modo di quello dell'alta Valbrembana (il perché è chiaro: era fatto per lo più dai bergamini anche in alta Valseriana).
L'ardesiano Guido Fornoni (La casa rurale, Comune di Ardesio, 1998?, p. 31) ci informa che il formài dè mut era prodotto cuocendo la cagliata a 45-50°C. Un range realistico con la "vera" pratica tradizionale, che adattava a circostanze di mercato e a contingenze delle condizioni di produzione i parametri tecnologici. L'assurda pretesa di produrre formaggi "tradizionali" imponendo parametri "stretti" è diretta derivazione dell'applicazione poco sensata di una mentalità anelastica, formatasi nelle condizioni controllate della produzione industriale. L'artigiano mantiene la (relativa) costanza di caratteristiche del suo prodotto variando anche di molto i parametri di lavorazione. Tenere fissi i parametri in condizioni d'alpeggio significa ottenere prodotti molto variabili (allora si usano i fermenti industriali e si deraglia). 


Lo scalzo concavo: l'apparenza inganna?

Lo scalzo concavo è elemento di identità di alcuni formaggi grassi d'alpe alpini. Il branzi quando ha mutato pelle, divenendo invernale e semigrasso, ha mantenuto forma e scalzo. Operazione perfettamente comprensibile, finalizzata a mantenere un mercato "dell'orgoglio bergamasco". A volte ci si accontenta della forma e di una bandiera stinta, ma - si sa - nel formaggio la forma è spesso sostanza. Lo hanno fatto anche il beaufort e l'abondance, nati, come tutti i formaggi grassi di montagna, in alpeggio e parecchio industrializzati nei decenni recenti. Le forme perfettamente uguali, con gli spigoli vivi e di uguale pezzatura sono quelle dei grandi caseifici cooperativi (sotto il beaufort). Nelle condizioni di alpeggio a volte si deve decisere su fare due forme piccole o una grossa perché il latte è quello che è. Spesso sufficiente a fare una forma al mattino e una, un po' più piccola, la sera o due al mattino e una alla sera (in questo caso un po' più grossa di quelle del mattino. Dove non si lavorano 2-3 quintali ma centinaia di quintali, e tutte le fasi sono meccanizzate, le forme sono tutte perfettamente calibrate.  Il beaufort è comunque un ottimo formaggio ed è rimasta anche una produzione dl'alpeggio. Peccato che al nostro gusto "viziato" dai prodotti ribelli, allettato dalla "selvaticità" del vero bitto, esso - come altri formaggi savoiardo-svizzeri - ci ricordi sempre e un po' ossessivamente il gruyere.






Fig. 1 - Mappa dei formaggi a scalzo concavo. Sono tutti alpini, d'alpeggio e grassi (a latte intero). Il bitto/branzi è un esempio isolato dalla "famiglia" dei formaggi savoiardi (abondance e beaufort). Anche la fontina ha uno scalzo subconcavo (almeno spesso). 

Un segno di identità antico

L'area orobica può vantare una documentazione dello scalzo concavo del XV secolo (scusate se è poco
 meussieurs). Si tratta (l'ho già fatta vedere diverse volte della rappresentazione di un formaggio nelle "nozze di Cana" dell'Oratorio dei disciplini di Clusone. Perché lo scalzo concavo? Forse perché quando è duro (dopo l'anno di sicuro) il formaggio può essere conservato appoggiato sullo scalzo (non serve più girare le facce piatte perché non perde quasi più umidità). Forse perché è facile legare intorno una corda alle forme e appenderle (serviva a caricare facilmente i muli). 



Il "bitto dop", che alla sostanza della tradizione non è interessato (vai con i mangimi e i fermenti e chissenefrega se non c'è latte di capra), nel disciplinare precisa la caratteristica di "spigoli vivi" dello scalzo. Un risultato ottenibile con le fascere di plastica (che non si deformano, non si "piallano" con l'uso, non si degradano se non in migliaia di anni). Per fortuna che, causa l'umidità eccessiva all'interfaccia tra la fascera e la cagliata, molti stanno tornando indietro al legno che "sa" regolare l'eccesso di umidità della pasta di formaggio al suo contatto.   Per mantenere un "bello scalzo concavo" e dagli "spigoli vivi" il casaro deve rinnovare il parco fascere e utilizzare come combustibile le vecchie (di legno, ovviamente). Ma per sparagnare i casari le cambiano poco (la "sana economia contadina" non è applicata sempre a proposito ma, come è noto, si spendono follie per le trattrici, e si fa "economia" sulle fascere). Così tante volte si vedono "storici ribelli" (ex bitto storico) con lo scalzo diritto, che non è proprio bello da vedere (ma sempre meglio della diffusione della plastica). Meglio la sostanza o la forma? La sostanza. Senza dimenticare, ripeto, che nel formaggio la forma è anche sostanza.

L'apprezzabile modestia del formai de mut

Dopo tutta questa disgressione non si può fare a meno di dare ragione alformai de mut che per distinguersi dal branzi (e dal bitto) ha rinunciato ad una caratteristica molto particolare e interessante del gran formaggio d'alpe delle Orobie occidentali.  Il formai non pretende di eguagliare quella che è stata la gloria del vecchio bitto o del vecchio branzi, dichiara di essere una "versione più modesta" tanto che ammette l'uso del latte di due mungiture (quindi acidificato) laddove la grande qualità del bitto della tradizione è legata alla lavorazione due volte il giorno a munta calda. Significativo che nell'ambito del formai de mut si sia distinto, grazie al maestro casaro Abramo Milesi (peraltro fondatore e vicepresidente del Consorzio tutela del formai de mut), il camisolo. Prodotto solo nell'omonima alte il camisolo spuntava prezzi notevolmente superiori alformai de mut diventando, di fatto un formaggio a sé.
Il formai de mut è frutto di una regressione, di un depotenziamento del sistema alpicolturale altobrembano legato, come ho avuto modo di spiegare in altre occasioni, alla fissazione in pianura dei bergamini che, sino alla prima guerra mondiale, monopolizzavano gli alpeggi dell'alta val Brembana. Con meno vacche e meno esperienza di caseificazione commerciale i piccoli allevatori stanziali (i "casalini") impiegarono decenni a prendere il posto dei bergamini nonostente i tecnocrati, cui i bergamini stavano antipatici (perché non se li filavano) facessero di tutto per l'educazione tecnica paternalistica dei "villici". I casalini non riuscirono mai riempire il vuoto lascato dai bergamì e  parecchi alpeggi furono caricati da valtellinesi, che nel frattempo seppero "allargarsi" oltre il displuvio. Nel frattempo il vecchio branzi diventava un formaggio invernale semigrasso. Lo stesso formai de mut, di fronte all'esiguità della produzione si è ben presto ridotto ad ammettere la versione "invernale" con la distinzione tra etichetta blu (alpeggio) e etichetta rossa (invernale). Peraltro il molto discutibile disciplinare del 1985 lo ammetteva, consentendo anche l'insilato di mais nell'alimentazione delle vaccine (sarebbe da rivedere, no?).
Se il formai de mut è il frutto dell'impossibilità di perpetuare nelle nuove condizione dell'era post-bergamina le glorie del passato, dichiarandosi onestamente "diverso" dal gran formaggio d'alpe delle Orobie, il "bitto dop" è l'esito furbastro di una forzatura che ha "disaccoppiato" una tradizione secolare dalla sua matrice culturale e geografica.
Se in val Brembana le capre erano state perseguitate, crollando a poca cosa a fine Ottocento, non fu 
così in Valtellina dove il bitto continuò ad essere prodotto con il latte di capra (con l'eccezione di alcuni alpeggi di Albaredo a seguito di rimboschimenti e divieti che - nel periodo tra le due guerre - costrinsero a tenere le capre presso i maggenghi. Ma in Valtellina (la parte orobica, ovviamente, dove si faceva bitto) le capre vennero riammesse appena possibile in alpeggio. La possibilità di fare bitto dop senza latte di capra, prevista dal disciplinare nel 1995, era propedeutica all'estensione pansondriese del bitto dal passo dello Spluga al Gavia e a Livigno seconda un'operazione dettata dai saccenti guru del marketing del tempo che credevano che una produzione di alta qualità legata (almeno nominalmente) alla tradizione potesse avvantaggiarsi di "masse critiche" di mercato allo stesso modo di un prodotto seriale industriale.

Pendolarismi transorobici e denominazioni "pendolari"

Più approfondisco la storia del Gran formaggio d'alpe delle Orobie e più mi rendo conto che la matrice è unica e che le diverse denominazioni, i "ritocchi" ai parametri di produzione per "differenziarsi", le "perimetrazioni" ecc. sono tutti fattori che hanno immiserito una grande storia. La cosa più misera è consistita nel tracciare una linea di demarcazione artificiale tra i due versanti brembano e valtellinese delle Orobie.
Quando le Orobie erano divise tra tre stati sovrani (allora erano sovrani sul serio) c'era una circolazione di capitali, di competenze, di prodotti, di idee tra i versanti.  Oggi ce la sognamo. Che si trattasse di industria mineraria e di lavorazione del ferro o di formaggio i confini erano porosi, le famiglie operavano con rami di qui e di là.






Ma quale "bitto valtellinese", non c'entra un fico con la valtellinesità il bitto

La storia dei bergamini la dice lunga sul "bitto valtellinese". Natale Arioli ha dato nel 2016 alle stampe, per ora in edizione privata, un volume ("Oltre i ricordi, alla ricerca delle radici") che ricostruisce la dinastia di bergamini cui appartiene. Una dinastia che, con vari rami altobrembani (Piazzatorre, Mezzoldo), si era diffusa alla Bassa, non senza intrecciarsi con dinastie bergamine delle altre convalli brembane, della val Taleggio, della Valsassina, dell'alta Valseriana. In questo volume, più sistematicamente rispetto a scritti precedenti, emerge la secolare frequentazione degli Arioli degli alpeggi della Valgerola (presi in affitto). Bomino, Dosso cavallo, Pescegallo sono stati, tra XVI e XVIII secolo, caricati in modo continuativo dagli Arioli. E parliamo solo di una dinastia! Sappiamo che anche un altro grande alpeggio gerolese (Trona) è stato caricato per secoli da bergamaschi e valsassinesi (tutti bergamini). Se il cuore della produzione del bitto, la Valgerola era caricato da bergamini brembani e valsassinesi con quale facciatosta si può asserire che il bitto è un formaggio valtellinese? Se poi consideriamo che le famiglie della val Gerola e della val Tartano erano legate alla Valsassina e alla Valbrembana il quadro è sufficiente per concludere che il bitto è al 100% orobico, e se si vuole precisare e diventare un po' cattivi, allora dobbiamo aggiungere che è nato in Valsassina e Valbrembana.
Nei documenti citati da Arioli emerge anche che altri alpeggi orobici valtellinesi erano caricati da bergamini brembani oltre a quelli del comune di Gerola.
Il nome bitto, però, ha avuto successo anche se, per secoli, la stragrande maggioranza del Gran formaggio d'alpe delle Orobie era venduto fuori dalla Valtellina e chiamato diversamente. La via del bitto lo portava direttamente dagli alpeggi in Valsassina e a Lecco, la Priula a Mezzoldo e a Bergamo. Il formaggio di monte (o formaggio grasso) come era chiamatodopo l'affermazione a fine Settecento  della Fiera di san Matteo ai Branzi, divenne il "formaggio dei Branzi" e tale fu nell'Ottocento.
All'inizio del Novecento a Morbegno vi fu un fervore di iniziative: la Mostra casearia provinciale, (che non si chiamava "Mostra del bitto"), la realizzazione della casera sociale dei caricatori d'alpe. Iniziative che spostarono gradualmente da Branzi a Morbegno il baricentro. Quando Arrigo Serpieri, illustre economista agrario, si dedicò per la Società agraria di Lombardia all'indagine sistematica sui pascoli alpini, registrava ancora, parlando degli alpeggi delle Orobie valtellinesi (Società agraria di Lombardia, 1904) che la maggior parte della produzione di bitto era esitata ai Branzi. Ma nel 1907, quando uscì l'indagine sugli alpeggi bergamaschi, Morbegno era in fase effervescente e il Serpieri, che pure sapeva che ai Branzi si vendeva il branzi, chiamò "formaggio grasso tipo bitto" quello degli alpeggi altobrembani (riservando curiosamente la denominazione "branzi" a quello degli alpeggi delle convalli più orientali (di Carona e Roncobello). Si veda la Tab. 1 (che ho già presentato più volte).


Tabella 1 - Alpeggi dell'alta val Brembana all'inizio de XX secolo (da: Soc. agraria di Lombardia,I pascoli alpini della provincia di Bergamo, 1907)
Nome alpeggioComunePagheProdotto
PonteranicaS. Brigida60Formaggio grasso tipo Bitto
Parissolo*S. Brigida60idem
AvaroCusio173idem
Foppa*Cusio100idem
ColleAverara100idem
Ancogno*Averara e Mezzoldo180idem
GambettaAverara e Mezzoldo80idem
CantedoldoAverara e Mezzoldo90idem
Azzarino/Fioraro/M.te NuovoMezzoldo172idem
Azzarino/CalvettiMezzoldo90idem
Cavizzola*Mezzoldo82idem
SiltriMezzoldo58idem
TerzeraMezzoldo107idem
CavalloPiazza Torre97idem
Monte SeccoPiazza45idem
Torcola vagaPiazza118idem
Torcola solivaPiazza94idem
ToragelloMojo de’Calvi58idem
ToracchioMojo de’Calvi80idem
Arale V. con ScessiValleve300idem
SalineValleve70idem
AreteFoppolo100idem
CarisoleCarona e Foppolo700Branzi
SassoCarona191idem
ArmentagraCarona118idem
MersaCarona72idem
FoppeCarona66idem
SardignanaCarona55idem
Lago GemelloBranzi173idem
Valle OscuraBranzi80idem
Monte ColleBranzi133idem
MezzenaRoncobello197idem
GrumelloRoncobello45idem
ValliS. Brigida37Burro e formaggio magro
VagoValleve30?
FontaniniValleve60Stracchino
PiazzoliFoppolo35?
RoveraFoppolo28?
CadelliFoppolo20?
DordonaFoppolo18?
Val SambuzzaCarona133Formaggini freschi
AcquabiancaCarona105Stracchini di Gorgonzola
FoppoboneCarona33?
ZoppoBordogna30?

Da quanto detto si ricava: 1) che al tempo in cui il bitto consacrava la sua fama (secoli XVI-XVII) a produrre bitto erano per lo più bergamini brembani (compresi quelli di Tartano che era un'appendice brembana a nord del displuvio); 2) che il nostro formaggio nell'Ottocento era venduto per lo più a Lecco e a Branzi (qui con il nome di branzi); che all'inizio del Novecento osservatori autorevoli definivano "tipo bitto" il formaggio prodotto nella maggior parte degli alpeggi brembaniNon è finita. Come ho già ricordato in più occasioni che il branzi (anche quello prodotto sugli alpeggi di Gerola, considerata il cuore del bitto) era colorato con lo zafferano e cotto a temperature elevate (48-52°C) mentre il "bitto", ovvero quello esitato sulla piazza di Morbegno, era senza zafferano e cotto a 45-47°C. Il "bitto" era assimilato al bettelmat(formaggio morbido da consumare entro la primavera successiva), il "branzi", allo sbrinz (formaggio duro da grattugia). In realtà i bergamaschi consumavano "branzi" molto stagionato da grattugia. Oggi il bitto "valtellinese" dop si cuoce a 48-52°C, a 45-47°C il formai de mut"bergamasco". Per secoli i "bergamaschi" hanno caricato gli alpeggi delle Orobie valtellnesi, oggi parecchi alpeggi altobrembani sono caricati da valtellinesi. Di fronte a tutti questi sistematici veri e propri scambi di identità e di ruoli chi ha il coraggio di sostenere che bitto e branzi non fossero (almeno prima che il branzi diventasse un formaggio inverbale semigrasso) la stessa cosa? Quanto al formai de mut si è abbondantemente chiarito che sorge da quel ceppo come "adattamento a una situazione di depotenziamento".

Una sovrapposizione solo declinata al passato?

I soliti scettici diranno: "si ma tu ti riferisci a cose di un secolo minimo fa, figuriamoci poi cosa interessa a noi dei secoli precedenti". Potrei rispondere: "siete zotici, perché la profondità storica è quella che oggi fornisce vantaggi comparati sul mercato globalizzato". Ma senza polemizzare oltre veniamo a circostanze di pochi decenni fa e persino di oggi. Così accontentiamo anche gli zotici. Prego quindi leggere la Tab. 2 che si riferisce al momento d'oro del Formai de mut. Ottenuta la dop, il cav. Pierangelo Apeddu (morto nel 2014 senza che nessuno se ne ricordasse, ma su questo oblio torneremo presto) si diede molto da fare per convincere tutti o quasi i caricatori dell'alta val Brembana a sottoscrivere (almeno sulla carta) l'adesione al Consorzio di tutela. Così vediamo che anche i valtellinesi (i Colli, i Fognini, i Marioli, i Gusmeroli, i Duca, i Fallati) aderirono al formai de mut.
 Però continuarono a fare "tipo bitto" visto che non avevano le capre. Per il formai de mut quello era un pregio, perché così di demarcava dal bitto, che allora era ancora considerato tale solo con l'aggiunta di latte di capra. In ogni caso, anche senza dop, anche senza latte di capra, il bitto o "tipo bitto" continuava ad essere molto più rinomato (e pagato) del formai de mut (secoli di fama non si bilanciano con un riconoscimento burocratico). 

Tab. 2 -  da Consorzio tutela Formai de mut. Alta val Brembana, un palmo di terra. Una valle, una storia, "Il Formai de mut" , 1988






La famiglia Duca all'alpe di Ancogno soliva, ritratta come "produttrice di Formai de mut" nel libro celebrativo del 1988.


Una foto tratta dal libro del formai de mut che mostra come lo scalzo restava concavo. Chi faceva bitto continuò a fare bitto. Non buttavano certo via le fassere per far piacere ad Apeddu. Così il libro testimonia dell'ambiguità di questo formai del mut che era bitto (sotto la fascera con la nervatura centrale che imprime la concavità).


I caricatori d'alpe, convinti da Apeddu a entrare nel formai de mut, lo fecero aspettando gli eventi (furbizia contadina). La dop rappresentava un prestigioso traguardo ma non poteva scalzare il prestigio del bitto, specie perché il formai de mut si presentava, per sua scelta, come il "fratello povero" del bitto (lo abbiamo già spiegato: temperatura, pezzatura, durata minima di stagionatura. Così quando la Valtellina passò alla riscossa, con ritardo di 10 anni rispetto al formai de mut che aveva avuto dalla sua il ministro Pandolfi e  l'assessore regionale all'agricoltura Ruffini, Apeddu perse i produttori valtellinesi, che poterono fare legalmente bitto dop anche in Valbrembana (sono sette i comuni riconosciuto "da bitto" dal dsciplinare del bitto dop).
Ma la storia dei formaggi camaleonte, della battaglia della territorializzazione becera (anche andando contro la storia), del "sono più forte io", non cessò. Grazie a quei "fessi" dei ribelli, che tenevano eroicamente alta un'immagine di calecc', di capre orobiche, di sacrifici (nel mentre venivano presi allegramente per il culo dal Consorzio del bitto e casera e dalla Latterie di Delebio ecc.), il bitto mantenne il suo prestigio.  Il differenziale di prezzo tra bitto e formai de mut fece convertire al bitto (cioè alle palanchine) anche dei bergamaschissimi produttori gogis. Anzi, qualcuno (ed è una vera barzelletta che la dice lunga sulla serietà delle dop), tiene opportunisticamente il piede in due scarpe. Lo stesso alpeggio fa entrambe le dop.  Non lo possono fare i ribelli del bitto, i talebani della capra orobica, perché se hai le capre (e per fare l'ex bitto storico, ora storico ribelle, è obbligatorio) non puoi fareformai de mut.  Cosa distingue formai de mut e bitto dop? Il prezzo e, al massimo la furbizia di usare la fascera da scalzo concavo quando fai (dici di fare) bitto.
 


Tabella 3 - Produzione per alpeggio (anno 2015, fonte: consorzi)
AlpeComuneprodotto 1prodotto 2
CaseraCusioBitto dop
FoppeCusioBitto storico
ParissoloSanta BrigidaBitto storico
CulAveraraBitto dop
CantedoldoAveraraFormai de mut
Ancogno solivoMezzoldoBitto storico
CazizzolaMezzoldoBitto storico
MorettiFoppoloBitto dop
III BaitaFoppoloBitto dop
RoveraFoppoloBitto dopFormai de mut
SessiValleveBitto dopFormai de mut
AraleValleveBitto dopFormai de mut
Carisole CaronaBitto dopFormai de mut
Cosa mersaCaronaFormai de mut
TorracchioValnegraFormai de mut
Torcola solivaPiazzatorreFormai de mut