(foto di Michele Corti, Albino Mazzolini e archivio Ruralpini)
Una valle incantata,
oggi isolata (a torto) anche dai circuiti escursionistici, ma in
passato trafficata da carovane cariche di formaggi e di carbone di
legna. Qui, dal 2000, la famiglia Martinoli (Samuele e Donatella, ai
quali si è affiancata gradualmente la figlia Serena) produce il bitto
(ora "storico ribelle").
(01.08.17) Siamo tornati all'alpe Bomino il 13 luglio scorso. C'ero stato l'ultima volta il 18 agosto 2012. Quest'anno la malga [qui e altrove nelle Orobie con il significato di "mandria da latte"] stava per lasciare la parte bassa del pascolo, mentre cinque anni fa vi era appena ridiscesa. Combinazione ha voluto che l'incontro con i Martinoli, la famiglia che gestisce l'alpe, sia avvenuto nello stesso punto (alla baita della Sponda), proprio dove era in corso la mungitura cinque anni fa. Allora avevamo prodotto questo mini video
Un alpeggio con tanta storia
"Qui non si vede niente - dice Samuele Martinoli, che da diciassette anni viene qui per l'alpeggio - solo sulla cima, nel mese di agosto, si vede qualche bergamasco, ma attraversano, non scendono, proseguono sulla cresta. Qui non passa quasi nessuno, solo qualche amante del rampeghino".
L'alta
valle di Bomino vista dalla casera di Bomino soliva
Ben diverse, però, dovevamo essere le cose tra il XVI e il XVIII secolo. Per la valle di Bomino passava allora l'antica via mercatorum (il percorso che da Averara risale la val Mora per superare la dorsale orobica in corrispondenza del passo del Verrobbio, a 2022 m) . Scendendo per la valle di Bomino si proseguiva poi verso Morbegno. Il passo era chiamato anche degli "zapelli di Verrobio" (zapèi de Verobi), dal termine lombardo utilizzato per definire un passaggio stretto e obbligato con gradini (c'erano anche i zapèi de la vriga, per arrivare all'Aprica).
Il passo del Verrobbio (dal nome della montagna vicina), a testimonianza dell'importanza dell'antico tracciato, era noto anche come passo di Morbegno. Prima dell'apertura della più agevole via Priula, che con un nuovo tracciato - progettato ad hoc - superava il crinale in corrispondenza dell'attuale passo di San Marco, l'itinerario era comunque piuttosto frequentato, anche se i muli non potevano transitare a carico pieno. In alcuni tratti i muli dovevano persino essere scaricati, costringendo i mulattieri a caricarsi sulle loro spalle la mercanzia.
La
malga di Bomino vaga (allora ben più numerosa di oggi) zona del passo del Verrobbio in una foto d'archivio (Ruralpini, 2003)
Notizie per noi molto interessanti in merito ai traffici per il Verrobbio, emergono dalla documentazione relativa all'annosa contesa sui diritti di passaggio del passo stesso. Essa si protrasse per sessant'anni, a cavallo tra Seicento e Settecento, e riguardava il tratto di percorso attraverso le alpi Ancogno e Col effettuato dalle malghe dei bergamini bergamaschi per raggiungere l'alpe Bomino, da essi rilevata in affitto dalla parrocchia di Gerola che ne era proprietaria. Dopo aver risalita la Priula da Mezzoldo, dovevano - raggiunta la cantoniera di San Marco - percorre la vecchia via attraverso il Verrobbio. I proprietari delle alpi di Ancogno e Col, sul versante brembano, pretendevano che i bergamini scendessero per la via Priula sino a Morbegno e risalissero la Valgerola o, in alternativa, che corrispondessero loro esosi pedaggi. La causa, che si trascinò con pesanti costi legali per entrambe le parti (si svolgeva a Venezia), si concluse solo nel 1726 con una composizione ragionevole tra i privati proprietari delle alpi Ancogno e Col e la parrocchia. Avrebbero potuto arrivare settant'anni prima alla stessa soluzione risparmiando molte spese.
La ricca
documentazione relativa alla causa del Verrobbio, che coinvolse anche le autorità
pubbliche del tempo (il podestà di Morbegno e il capitano e podestà di
Bergamo), ci consegna notizie interessanti sulla storia del bitto,
desunte dalla documentazione conservata nell'archivio della chiesa di
San Bartolomeo di Gerola - proprietaria dell'alpe Bomino - e consultata da Cirillo Ruffoni (1).
Nel 1693 il Podestà di Morbegno reclama il diritto di libero transito attraverso il passo, sottolineandone il valore commerciale, e mette in evidenza - oltre le importazioni dalla bergamasca in Valtellina - anche la “quantità grande di bestiami e tutta la grassina [formaggi] che si fabbrica ne [sic] monti vicini a quei paesi” e che si dirigeva verso la bergamasca. Circostanza confermata, nel 1701, dal podestà e capitano di Bergamo che sottolinea come l'itinerario attraverso il passo del Verrobio servisse a “racoglier le carni et grassine per beneficio della città di Bergamo et de pubblici datii”.
È
interessante notare come, nel periodo considerato, non solo Bomino ma
anche le alpi Pescegallo e Dosso cavallo, fossero caricate da
bergamini bergamaschi (in particolare gli Arioli di Piazzatorre) e che quindi buona parte del bitto della
Valgerola venisse prodotto da bergamaschi che, alla fine della stagione, lo trasportavano in val
Brembana.
Nell'appello dei sindaci della chiesa di Gerola, redatto ai fini della causa, si
ribadisce che - a memoria d'uomo - il transito per l'itinerario
contestato dai proprietari delle alpi Ancogno e Col, era sempre stato ininterrottamente praticato e libero per “condurre animali
d'ogni sorte dalle valli Averara, Torta e oltre nelle terre di
Gerola, Pedesina, Volusa [Rasura?]
e Sacco” e che “per suddetta strada e passo di Varobio e Morbegno
si conduce gran quantità di formaggi da dette terre in Bergamasca”.
Queste notizie, come - de resto quelle relative all'alpe Trona - ci dicono che la
produzione del formaggio d'alpe in Valgerola, nei secoli XVI-XVIII, era
gestita per lo più da bergamaschi e valsassinesi e che dalla Valgerola
il formaggio era portato a Bergamo (o a Lecco, insieme a quello
dell'alta Valvarrone). Con buona pace di chi considera il bitto un
formaggio d'origine "valtellinese". Un
equivoco legato al fatto che, in effetti, una minima parte della produzione
(rispetto a quella, ben maggiore, esitata a Bergamo, Lecco) era esitata sulle
piazze valtellinesi con il nome, evocativo di grande pregio, di "fromaggio
[sic] della valle del Bitto".
La parte bassa della valle di Bomino vista dalla casera di Bomino soliva
La
valle di Bomino si presta bene ad illustrare le relazioni economiche e i
movimenti di uomini, animali e merci tra il versante brembano e quello
della Valgerola, ma anche l'intreccio tra l'economia dei pascoli e
dei boschi e quella delle miniere e degli impianti siderurgici.
Un'economia che vedeva impegnate importanti e ricche famiglie che, a volte,
mantenevano rami sui diversi versanti orobici per sfruttare meglio
le opportunità dei traffici (non sempre leciti) attraverso i confini.
Ancora nei primi decenni del Settecento la val Bomino (molto boscosa nella
sua parte bassa, come si vede nella foto sopra) forniva grandi quantità
di carbone di
legna per la fusione del minerale di ferro, estratto nelle miniere d
Trona. Nel XIX secolo, dopo l'unità d'Italia, diversi beni della
parrocchia di Gerola vennero incamerati dallo stato e messi in vendita a
privati. La forte intensificazione ottocentesca dell'attività
d'alpeggio portò alla divisione in due proprietà della valle: la
"soliva" e la "vaga". Il "vago" è più ombroso,
esposto a NO, il “solivo” a SE. Ma al "vago" e al "solivo" sono in realtà le
casere, che si guardano di rimpetto. Risalendo la valle i pascoli
dell'una e dell'altra proprietà si scambiano di versante (per non penalizzare nessuna delle due "sorti" derivate dalla
precedente proprietà unica).
L'evoluzione dello storico ribelle
Fatta questa premessa su Bomino del passato è utile inquadrare il ruolo di nella situazione attuale dello "storico ribelle". Lo storico ribelle (ex bitto storico) vive una stagione di transizione, tra nuovi successi e i "colpi di coda" di un establishment agroindustriale che ha sparato le sue ultime cartucce contro una realtà di resistenza contadina, casearia, rurale che continua a rappresentare per esso una spina nel fianco.
Le buone notizie sono date dell'apertura della nuova sede in centro storico a Morbegno (vedi l'articolo recente qui su Ruralpini) ma anche dall'allargamento della cerchia dei sostenitori e degli estimatori dell0 "storico". Purtroppo, però, va registrato che alcuni produttori storici, legati alla “scuola di Gerola” - quella dei mitici casari del passato - non ci sono più. Vuoi per cessazione dell'attività d'alpeggio, come nel caso della famiglia Manni (un abbandono - motivato da cause famigliari - che segna la fine di un'epoca), vuoi perché taluni hanno ceduto alle pressioni (per utilizzare un'espressione eufemistica) del suddetto establishment e hanno disertato il campo dei ribelli del bitto. Restano i produttori che hanno saputo da tempo rendersi indipendenti dal sistema, operando la trasformazione del latte anche in inverno, non facendosi sedurre dalla logica dei numeri e della trappola dei volumi fisici di produzione.
In questo contesto si affacciano dei giovani alle prime esperienze (ne parleremo in un prossimo articolo) ma si consolidano anche delle esperienze che, non essendo riconducibili alla linea genealogica “blasonata” della Valgerola, erano rimaste ingiustamente un po' in ombra. Fino a qualche anno fa i produttori provenienti dalla sponda retica della bassa Valtellina (nota come la “costiera dei cèch”) rappresentavano ancora una categoria “in osservazione” (ci si chiedeva se avrebbero mai potuto raggiungere il livello della "scuola di Gerola"). Resisteva, anche tra i ribelli del bitto, il mito delle valli del Bitto e dei casari di vecchia scuola. Ma il mito era ormai esaurito. Anche noi non ce ne siamo accorti in tempo e abbiamo contribuito a rinverdirlo fuori tempo massimo. Le condizioni che lo avevano costruito non esistevano però più: il sistema d'alpeggio era radicalmente cambiato, non c'erano più i casari e i pastori professionisti di un tempo ma un sistema che si regge su famiglie che esercitano. anche per il resto dell'anno, l'attività di allevamento e caseificazione. Dove non c'è questa struttura famigliare è giocoforza ricorrere a personale raccogliticcio, con esiti a volte incerti. I risultati di questa trasformazione ci dicono che, anche in queste nuove condizioni, si può continuare a raggiungere l'eccellenza del passato. Questa è la buona novella che vale più di un mito sbiadito.
La casera dell'alpe Bomino vaga
Ai vecchi casari sono subentrati giovani e donne che, pur operando nell'ambito della propria azienda, sono casari a tutti gli effetti, lavorando il latte (e non poco) tutto l'anno. Un tempo, quando la famiglia aveva 1-5 vacche e tutto era inscritto nel quadro di un'economia di sussistenza, il latte lavorato era ben poca cosa anche perché, in inverno (a partire dalla fine dell'Ottocento), lo si consegnava alla latteria di paese dove spesso operava un casaro salariato. In precedenza, in inverno, le vacche erano asciutte o fornivano il latte ai vitelli. I contadini (le contadine) lavoravano in proprio un po' di latte sul maggengo, nei periodi precedenti e seguenti all'alpeggio. Ma producevano solo formaggette magre per uso famigliare che non richiedevano professionalità. In estate le bestie da latte (capre comprese) erano affidate ai caricatori d'alpe in cambio di denaro (proporzionale alla loro resa in latte). Pochi erano i casari capaci di manipolare quintali di latte, di produrre grosse forme di formaggio, ed erano ben pagati. Ma tutto questo è cambiato e le condizioni perché la tradizione continui oggi sono molto diverse: oggi è importante che i casari (spesso le casare) possano produrre formaggi e latticini di qualità estate e inverno. Il che significa valorizzare al meglio anche la produzione artigianale invernale, che deve sempre più differenziarsi da quella industriale, qualificandosi in quanto ottenuta dal latte della propria stalla, dove l' alimentazione, la salute e il benessere degli animali sono ben diversi da quelli delle grandi stalle che producono latte per l'industria (di qualità inferiore, non fosse altro per la sosta nei tank di refrigerazione ).
La crescente diffusione, nelle piccole stalle che lavorano il proprio latte, di pezzata rossa, bigia alpina e bruna originale, marca questo orientamento qualitativo e diventa un elemento chiave anche da comunicare al consumatore. Non solo queste razze, grazie alla loro "duplice attitudine", si prestano molto meglio alla gestione d'alpeggio (garantendone la continuità) ma - anche in fondovalle - caratterizzano e rendono possibile un modello fatto di ricorso minimo ai mangimi, migliore fertilità, maggiore durata in stalla, minore incidenza di malattie, minor uso di farmaci. Tutti aspetti che favoriscono la qualità del latte (da non considerare solo come titoli di grasso e proteine e altri parametri "igienico-industriali"), il rispetto dell'animale, dell'ambiente e di una cultura.
Le valli del Bitto: un mito da ricontestualizzare
Le valli del Bitto costituivano indubbiamente un sistema molto forte, che seppe sopravvivere - almeno per un certo periodo storico - alla crisi del sistema di alpeggio (e di produzione del bitto) delle altre valli della bassa Valtellina. Dove si produceva bitto ce lo illustra la seguente tabella, che si riferisce alla sola provincia di Sondrio. In realtà la stessa fonte, di inizio Novecento (l'Inchiesta sui pascoli alpini della Lombardia), indicava come la produzione di questo tipo di formaggio fosse molto estesa in Valbrembana (33 alpeggi, mediamente più grossi di quelli valtellinesi), nella lecchese alta Valvarrone (3 alpeggi) e anche in qualche alpeggio delle comasche val del Liro e valle Albano (Lario occidentale). Non solo ma le vicende degli alpeggi tra XVI e XVIII secolo, richiamate nel precedente paragrafo, ci dicono che brembani e valsassinesi hanno caricato per secoli gli alpeggi della valle del Bitto dove producevano formaggio grasso che veniva poi commercializzato a Lecco e Bergamo. Gradualmente gli elementi locali (peraltro, spesso, di origine valsassinese e bergamasca, come indicato dai cognomi) sono subentrati ai bergamini transumanti della Valsassina e Valbrembana nella conduzione degli alpeggi della valle del Bitto, intraprendendo anch'essi la produzione del formaggio grasso di eccellenza.
Tabella – Alpeggi in provincia di Sondrio con produzione del bitto (Inchiesta sui pascoli alpini della Valtellina, 1903-1904)
Valle | alpeggi | con prod. bitto | vacche da latte | capre | alpi con capre |
Val Lesina (Comuni: Delebio, Andalo, Rogolo) | 7 | 6 | 393 | 410 | 6 |
Val Masino (Ardenno, Buglio in Monte, Val Masino, Civo) | 34 | 12 | 798 | 660 | 11 |
Val dei Ratti (Comuni: Novate Mezzola, Verceia) | 6 | 2 | 152 | 100 | 2 |
Val Tartano (Comuni: Campo Tartano, Forcola) | 22 | 20 | 1330 | 637 | 10 |
Val del Bitto (Comuni: Gerola Alta, Pedesina, Bema, Rasura, Albaredo, Cosio) | 23 | 23 | 1384 | 1093 | 14 |
Val Madre/Val Cervia/Val Livrio (Comuni: Fusine, Cedrasco, Caiolo) | 22 | 16 | 969 | 1315 | 16 |
Val Ambria (Comuni: Piateda)
|
5 | 1 | 140 | 80 | 1 |
Totale | 119 | 80 | 5166 | 4295 | 60 |
Elaborazione sui dati riportati in: A. Serpieri, "Relazione sui pascoli alpini valtellinesi", in: Società agraria di Lombardia, Atti della Commissione d’inchiesta sui pascoli alpini. I pascoli alpini della Valtellina. Volume I, Fascicolo III, Milano, Premiata Tipografia Agraria, 1903. pp. 1-128.
Tra le diverse valli interessate alla produzione del formaggio grasso d'alpe delle Orobie, una sicura importanza (12 alpeggi) era rivestita dalla val Masino, valle che non appartiene alle Orobie ma bensì alla Rezia, più famosa per le sue pareti granitiche e il bouldering che per gli alpeggi. Essa costituiva l'eccezione alla "orobicità" del bitto. Arrigo Serpieri (2) ci informa anche che : “L’alpe Granda appartiene al comune di Ardenno […] si fabbrica formaggio grasso, tipo Bitto, che trova smercio a Morbegno”. Le altre undici alpi della val Masino dove si produceva formaggio grasso tipo Bitto (in forme del peso di 16-17 kg), lo vendevano "al famoso mercato di Branzi, nell’alta valle Brembana". A quei tempi (non era stata ancora istituita la mostra dei formaggi di Morbegno e non era stata ancora realizzata la casera sociale dei caricatori d'alpe di Morbegno) la stragrande maggioranza del bitto (tutto quello della val Tartano e delle altre valli orobiche valtellinesi ad est di essa e parte di quello della stessa valle del Bitto) era venduto come branzi (ai Branzi) ed era stagionato a Bergamo.
Alpeggi eroici
Solo
in 12 alpeggi della val Masino su 32 si faceva bitto. Perché? La
risposta è semplice: si trattava di alpeggi di limitata estensione,
fazzoletti di pascolo tra le rocce, ma cresce un'erba
sopraffina e vi è grande abbondanza di acqua.
Per produrre bitto servivano 40-50 vacche come minimo (le produzioni
giornaliere non superavano i 5 kg per capo). Questo spiega perché in
val Masino la produzione era possibile solo negli alpeggi migliori e
più grandi. In questa valle persino
le casere e i ricoveri per gli animali sono in mezzo o sotto la roccia
come illustra bene la famosa "stalla
nella roccia" della Qualida (vai
a vedere l'articolo di Ruralpini). Alpeggi “eroici” dunque, spesso sopra i
2 mila
metri.
Chi sa bene queste cose perché le ha vissute in gioventù, è Samuele Martinoli - classe 1964 - caricatore
dell'alpe Bomino soliva. Samuele è un cèch (così
gli orobici chiamano i retici, che a loro volta
li qualificano come maroch),
un allevatore di
Cevo,
frazione del comune di Civo, già dentro la val Masino. Dal 2000 (con
l'interruzione di un anno, quando ha caricato l'alpe Lago di
Albaredo) viene in val Bomino. Una scelta motivata dal fatto che in val
Masino l'alpeggio, già in passato "eroico", era entrato in piena crisi:
mancanza di strade d'accesso, forti pendenze, fabbricati primitivi,
baite minimali. In
questa stagione calda 2017 che,
nonostante non si possa parlare di siccità vera e propria, vede una produzione di erba
scarsa per via della pochissima neve e del caldo di giugno, è comprensibile che Samuele
rimpianga la sua val Masino. Che, però, la moglie Donatella descrive
nei seguenti termini:
In val Masino gli alpeggi erano belli alti, senza niente; le casere, però, c'erano, erano scomode, ma c'erano. Ho iniziato nel 1993, quando sono arrivata in Valtellina, eravamo su all'alpe Spluga, sopra Cevo, c'erano capre anche se non erano nostre, facevamo bitto.
Alla crisi dell'alpeggio è corrisposta in val Masino anche quella dell'allevamento stanziale. Osserva Samuele:
Al mio paese [oggi di soli 190 ab.] avevamo 200
capre. Morti i vecchi le capre sono sparite. Non c'è più niente. In
tutta la val Masino ci sono solo io con le mie mucche e, per il resto,
c'è solo un giovane - vicino a San Marino - che ha una ventina di mucche,
una settantina di capre e una cinquantina di pecore. Una bella stalla
nuova, l'agriturismo, il Sasso Remer, ma in estate tiene tutto a casa.
Bomino vago: baite
e barech (archivio Ruralpini, 2007)
Le tradizioni d'alpeggio erano comunque ben radicate in val Masino. Samuele ha fatto alpeggio dall'età di 14 anni (come cascìn, pastorello). A 16 è stato promosso a pastore e ha esercitato in numerosi alpeggi della valle (ne snocciola i nomi come in una litania). Poi, nel 1994, quando si è sposato con Donatella Auguadri, ha creato la propria azienda, dotata di una stalla moderna per una trentina di capi.
Samuele
Martinoli al pascolo (archivio Ruralpini, agosto 2003)
Per
qualche anno Samuele ha utilizzato Bomino “vaga” con altri soci (tra
cui Fausto Moiola, che era anche casaro), poi è venuto al “solivo” come “rilevatario”
(affittuario). Da cascìn a rilevatari, tutto il cursus onorum di un om de munt.
I proprietari di Bomino "soliva" sono dei privati della frazione Nasoncio
di Gerola, da dove, poco a monte dell'abitato sparso, inizia la pista forestale che risale la val Bomino e arriva sino
alle casere.
Samuele,
in quanto cèch,
ovvero proveniente dalla sponda retica, quella delle vigne e dei
“contadini” (anche se lui, come altri, è om de munt), era guardato dall'alto
in basso dai caricatori e
casari della Valgerola, terra pastorale e un po' altezzosa. Ma oggi la “puzza sotto il
naso” dei gerolesi è fuori luogo. La scuola dei maestri casari
del bitto si è estinta e diversi caricatori/casari di matrice gerolese
(residenti nel fondovalle valtellinese, come altri originari delle
valli) hanno ceduto alle pressioni dell'agroindustria e dell'establishment politico-imprenditorial-amministrativo, tradendo la
storia dei loro avi. Quando non si ha il coraggio di difendere
un'eredità è giusto che essa passi ad altri.
La prima
casara del bitto
Donatella,
nata e vissuta a Milano, seppe inserirsi in modo quasi sorprendente
nella realtà dell'alpeggio e della caseificazione. Donna di poche
parole, ma indubbiamente energica e decisa (un avo, capitano degli
alpini del battaglione Morbegno, è stato eroe di guerra, pluridecorato
con due medaglie d'oro, di cui una alla memoria). Donatella imparò ben presto a caseificare in alpe quando - a differenza di
oggi - di donne casare non c'era l'ombra. Nessuno avrebbe scommesso
che una donna, per lo più milanese, sarebbe riuscita ad “andare
avanti”. Così i vecchi casari, convinti che tanto non li avrebbe
“rubati”, non le lesinarono consigli: “devi fare
così, fare cosà”. Se, da una parte, ridevano, dall'altra erano
probabilmente stupiti e ammirati (conoscendo un po' la mentalità degli
anziani).
Fatto sta che Donatella divenne la prima casara del bitto (“univamo il latte di capra a quello di mucca, non si chiamava bitto ma era uguale”). Anno dopo anno - dal 1994 ad oggi - il suo formaggio è diventato uno dei più apprezzati “storici ribelli”. Non ama vantarsi, ma neppure esibire falsa modestia (“ho migliorato perché... sbagliando si impara a quagiare, ma in realtà mi veniva bene anche all'inizio”).
La figlia Serena, che solo lo scorso anno ha finito le scuole (diplomandosi in ragioneria), spera di seguire le orme della madre. La ragazza misura le parole (come la madre) e, a sentirla parlare mentre munge con calma, pare molto più grande della sua età. Scandisce le parole in modo tranquillo e ponderato ma si intuiscono facilmente un carattere fermo e le idee chiare che contrastano con la corporatura minuta. Ha una grande passione per le mucche e l'alpeggio (“La mia razza preferita à la valdostana, la castana”). Se proprio deve "salvare" un'altra razza sceglie la bigia. In tema di razze la famiglia è comunque molto pluralista. Samuele è ancora dell'idea che la bruna (brown swiss) "sia buona da mungere... però anche le pezzate rosse ne fanno di latte". Quanto alla bruna originale dice di essere stato tentato, ma per ora resiste dissuaso da un commerciante di bestiame. Donatella è agnostica, ritenendo che ogni razza abbia i suoi pregi.
Serena ha idee chiare anche sull'economia dell'azienda ("buona parte del guadagno in inverno se ne va per comprare il fieno, per mantenere gli animali; noi non abbiamo terreni e dobbiamo comprarlo, ma anche chi ha i terreni ha dei costi per produrre il fieno e l'alpeggio è un aiuto"). Nonostante ciò preferisce parlare del proprio futuro in modo prudente. “Mi piacerebbe continuare ma... dipende dai mercati; se migliorano le cose, se si lavora per qualcosa di più della sopravvivenza”. Poi aggiunge che: "nella stalla alcune cose avrebbero bisogno di essere modernizzate, mungiamo ancora con il secchio [a macchina ma senza la linea del latte che lo trasporta direttamente al locale di conservazione/lavorazione]".
Serena conferma l'impressione diffusa che oggi, a fianco di molti "bamboccioni", ci sono ragazzi e ragazze molto seri, forse più che nel passato, sovente un po' troppo mitizzato. È persino severa contro quei ragazzi che: "dicono che non c'è lavoro, poi quando è il momento di lavorare non ci sono, ti dicono che vanno via da un giorno all'altro".
La ragazza aiuta la mamma nella
lavorazione del latte (ad estrarre la cagliata e a
“tenere su la grana”, operazione quest'ultima che non richiede particolare
attenzione ed esperienza ed affidata anche un tempo ai ragazzi). Forse
potrebbe ormai fare tutto da sola (o almeno provarci).
Ma Donatella, che ammette di essere “un po' gelosa”, non lascia
che la figlia, almeno per ora, “tocchi” più di tanto.
Ho così scoperto che, mentre la
successione (nel compito di "quagiare") avveniva abbastanza facilmente se da padre in figlia (quando
le ragazze erano sui quindici
anni, vedi Cristina Gusmeroli, Sonia Marioli, Antonella Manni),
quella da "madre in figlia" è più complicata (e si capisce il
perché). Del resto, per motivi simili, non avveniva quasi mai da
padre in figlio. I figli dovevano "rubare" i segreti del mestiere da
altri.
Quando chiedo a Serena se
ha già provato ad eseguire la salatura delle forme la ragazza si schernisce: “Lo
fanno la mamma, e anche il papà. Ci vuole la mano, se no si fanno solo
disastri”.
Mamma Donatella da qualche anno lavora il latte anche in inverno: “prima lo portavamo alla latteria del paese vicino, poi hanno chiuso”. “Faccio quei matüscin [formaggetta a pasta cruda a forma di focaccina con sottocrosta che tende a liquefare], vanno molto bene” . Serena pensa che bisognerebbe provare anche a fare lo yogurt. Pur essendo legata alla tradizione la ragazza si preoccupa di cogliere le opportunità di valorizzare il buon latte della mucche di famiglia anche con prodotti “nuovi”.
Papà Samuele appare un po' scettico e un po' sfiduciato mentre elenca, con tono rassegnato, tutte le difficoltà e le minacce dell'alpeggio
Non
si trovano più mucche da latte da
caricare, sugli alpeggi caricano bestie da carne per le speculazioni
[qualche giorno dopo l'intervista è scoppiato uno scandalo con trenta
indagati dalla procura di Sondrio],
come in val Tartano, dove alcuni pascoli sono andati a una ditta di
Parma
che ha cinquemila capi. Le stalle un po' grosse o caricano loro senza
aver bisogno di altre bestie o lasciano a casa
le mucche da latte anche in estate.
Ma i problemi non sono finiti: "quest'anno c'è poca erba... ma è così da anni”. Come molti allevatori lamenta anche che chi si fa avanti per ottenere il lavoro, poi si tira spesso indietro: " ci si alza alle cinque, non c'è sabato, non c'è domenica, non c'è discoteca ... per fortuna che quest'anno ho trovato un aiuto che viene della val Trompia" (il signore con la maglia gialla nella foto sotto).
Samuele pensa che la figlia, qualora trovasse nel frattempo un lavoro,un , non salirà più in alpe il prossimo anno. Lo dice in modo un po'scaramantico perché, sotto sotto, vorrebbe che continuasse. Pur con le difficoltà snocciolate accarezza anche un sogno per la "sua" val Bomino: in questa bella valle isolata, dove non esistealtro al di fuori di due casere e di qualche baita, dove oggi non passa quasi nessuno (“tranne qualche amante del rampichino”), Samuele ipotizza la realizzazione di un'attività agrituristica (“... se si riuscisse a farla conoscere”). Un progetto del tutto ragionevole considerata la bellezza della valle, la sua breve distanza da Morbegno (ma anche dal passo di San Marco), la grande visibilità dello "storico ribelle" che ha molti estimatori, tra cui importanti associazioni (Slow Food, Fai).
La casera di Bomino
soliva
Il progetto dell'agriturismo in alpe è affascinante ma è ora che si deve aiutare i Martinoli (e i loro colleghi) creando le condizioni perché Serena (e i suoi coetanei) possano continuare nell'attività che amano (se non la amassero avrebbero già manifestato la volontà di intraprendere altre strade). Cresciuta alla scuola di mamma Donatella, che si era fatta le ossa all'alpe Spluga di val Masino "rubando" il mestiere ai vecchi casari, Serena rappresenta una promessa che lo “storico ribelle” non può permettersi di perdere.
Non è impresa disperata perché se è vero che il mercato va creato, o quanto meno ampliato, è anche vero che la società valli del Bitto benefit sta già dandosi parecchio da fare, e con buon successo, per valorizzare i prodotti estivi ed invernali dei contadini che ad essa fanno riferimento.
Con la prossima apertura a Morbegno le opportunità di valorizzazione della produzione invernale si amplieranno. Un modo per dare un futuro ai sogni (tenuti prudentemente celati) di Serena ma anche per non far morire le speranze di tanti altri che, come dice papà Samuele, in assenza di prospettive nuove: “Vanno a lavorare fuori, pur avendo la famiglia delle belle stalle”.
Note
(1) C.Ruffoni “La storia degli alpeggi e del formaggio bitto. La grande svolta - l'età moderna -” in M. Corti, C. Ruffoni, Il formaggio val del Bitt, la storia, gli uomini gli alpeggi. Come nasce un mito caseario. Ersaf, Milano, 1999).
(2) A. Serpieri, "Relazione sui pascoli alpini valtellinesi", in: Società agraria di Lombardia, Atti della Commissione d’inchiesta sui pascoli alpini. I pascoli alpini della Valtellina. Volume I, Fascicolo III, Milano, Premiata Tipografia Agraria, 1903. pp. 1-128.
Lo "storico ribelle" ha bisogno dell'aiuto di tutti coloro che lo ammirano e credono al significato dei valori e dei modelli che incarna. Si può aiutare in vari modi.
1) Partecipare alla campagna di azionariato popolareDopo il cambio di statuto per divenire Società Benefit, secondo la nuova legge in vigore dal 1 gennaio 2016, la Società Valli del Bitto riapre la campagna di azionariato popolare. Società benefit è quella che non mira solo al proprio utile ma a vantaggi per la società, il territorio, l'ambiente.La Società Valli del Bitto punta solo alla sostenibilità economica e non al lucro. Senza di essa non potrebbe conseguire i propri scopi che sono in primo luogo garantire - attraverso la valorizzazione economica - la sopravvivenza del formaggio "storico ribelle" (ex-bitto storico) con tutto il suo sistema di produzione in alpeggio che rappresenta un monumento di cultura e di biodiversità. Lo "storico ribelle" è Presidio Slow Food, il presidio che - a detta di Slow Food - incarna forse al meglio il principi del cibo "buono - pulito - giusto". Tutti possono partecipare a questa Società che incarna l'ideale dell'agricoltura etica sostenuta dalla comunità che, a sua volta, sostiene il territorio. Si diventa soci anche solo con 150€ ( con un tetto di 20 mila €). A tutti i soci viene riconosciuto un "dividendo etico" in natura pari al 2% del capitale sottoscritto e uno sconto del 10% sul prodotto Tutti i soci partecipano all'assemblea e al pranzo sociale. Per sapere come associarsi: tel. 334 332 53 66 info@formaggiobitto.com
2) Adottare una forma in dedica vai a guardare qui
3) Offrirsi come volontari per le varie attività culturali e sociali svolte dalla società valli del Bitto Benefit e per costituire un'associaizone di sostenitori dello storico ribelle (scrivete a redazione@ruralpini.it)