RIPARTE LA CAMPAGNA SI SOSTEGNO ALLO STORICO RIBELLE (EX-BITTO STORICO)

BLOG UFFICIALE DEI RIBELLI DEL BITTO (SOCIETA' VALLI DEL BITTO BENEFIT)
La Società valli del bitto benefit è la forma organizzata, in grado anche di svolgere attività economica a sostegno dei produttori. Sono soci della "Valli del bitto benefit" i sostenitori (con ruoli di finanziatori/collaboratori volontari/consumatori), i produttori, i dipendenti Per associarsi basta acquistare una sola azione dal valore di 150 € per info: 334 332 53 66 info@formaggiobitto.com. Aiutaci anche anche acquistando una forma in dedica o anche solo un pezzo di storico ribelle vai allo shop online
Visualizzazione post con etichetta orobie. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta orobie. Mostra tutti i post

sabato 25 febbraio 2017

Il gran formaggio d'alpe orobico (per una storia a tutto tondo)


Il gran formaggio d'alpe orobico (per una storia a tutto tondo)

di Michele Corti

(21.02.17) Riflettendo su una storia di differenziazioni e perimetrazioni più o meno artificiose, sovrapposizioni, scambi di identità, emerge l'esigenza di una riconsiderazione complessiva di una vicenda casearia che ha spinto a concentrare l'attenzione (spesso conflittuale) sulle denominazioni: "branzi", "bitto", "formai de mut" (ma si potrebbero aggiungere anche i cru monoalpeggio, di cui il "camisolo" è stato precursore). Così, però, si è offuscato il valore d'insieme di una grande tradizione casearia. Essa oggi può essere interpetata in vario modo: se si tiene ferma l'importanza dell'aggiunta del latte di capra ( storicamente importante in passato su tutta l'area) e la ricerca dell'attitudine alle lunghe stagionature si ammirerà e premierà l'eroica tenacia dello "storico ribelle". Laddove, da oltre un secolo la tradizione di caseificazione d'alpe ha dovuto fare a meno dell'aggiunta del latte di capra (come in buona parte degli alpeggi della val Brembana, a seguito della proscrizione delle capre) l'espressione della produzione locale si incarna onestamente nel "formai de mut". 



Figura 1 - Consistenza del patrimonio caprino in alta Valbrembana tra Otto e Novecento

Il formai de mut  ha rinunciato con sana umiltà a proporsi a vertici di qualità raggiunti a suo tempo dal "vecchio bitto/branzi" (che erano la stessa cosa); si è limitato a fissare un minimo di stagionatura di 45 giorni (bitto dop minimo 70), ma anche una temperatura di cottura di 45-47°C (bitto 48-52°C) che preclude la lunga stagionatura. Ha anche rinunciato alla "veste tradizionale", ovvero allo scalzo concavo e ha puntato su pezzature più ridotte (bitto 8-25 kg, formai de mut max 12 kg). Nelle regole del formai de mut emerge una volontà di autolimitazione che segna la rottura con la tradizione, una rottura sofferta e obbligata. La tradizione non impediva di cuocere sino a 50°C, di produrre forme di 20-25 kg. Ol formài dè mut era prodotto anche nell'alta Valseriana, tanto è vero che ilformai de mut si chiama ufficialmente (e molto farraginosamente (formai de mut dell'alta Valbrembana dop). Quello seriano era prodotto nello stesso modo di quello dell'alta Valbrembana (il perché è chiaro: era fatto per lo più dai bergamini anche in alta Valseriana).
L'ardesiano Guido Fornoni (La casa rurale, Comune di Ardesio, 1998?, p. 31) ci informa che il formài dè mut era prodotto cuocendo la cagliata a 45-50°C. Un range realistico con la "vera" pratica tradizionale, che adattava a circostanze di mercato e a contingenze delle condizioni di produzione i parametri tecnologici. L'assurda pretesa di produrre formaggi "tradizionali" imponendo parametri "stretti" è diretta derivazione dell'applicazione poco sensata di una mentalità anelastica, formatasi nelle condizioni controllate della produzione industriale. L'artigiano mantiene la (relativa) costanza di caratteristiche del suo prodotto variando anche di molto i parametri di lavorazione. Tenere fissi i parametri in condizioni d'alpeggio significa ottenere prodotti molto variabili (allora si usano i fermenti industriali e si deraglia). 


Lo scalzo concavo: l'apparenza inganna?

Lo scalzo concavo è elemento di identità di alcuni formaggi grassi d'alpe alpini. Il branzi quando ha mutato pelle, divenendo invernale e semigrasso, ha mantenuto forma e scalzo. Operazione perfettamente comprensibile, finalizzata a mantenere un mercato "dell'orgoglio bergamasco". A volte ci si accontenta della forma e di una bandiera stinta, ma - si sa - nel formaggio la forma è spesso sostanza. Lo hanno fatto anche il beaufort e l'abondance, nati, come tutti i formaggi grassi di montagna, in alpeggio e parecchio industrializzati nei decenni recenti. Le forme perfettamente uguali, con gli spigoli vivi e di uguale pezzatura sono quelle dei grandi caseifici cooperativi (sotto il beaufort). Nelle condizioni di alpeggio a volte si deve decisere su fare due forme piccole o una grossa perché il latte è quello che è. Spesso sufficiente a fare una forma al mattino e una, un po' più piccola, la sera o due al mattino e una alla sera (in questo caso un po' più grossa di quelle del mattino. Dove non si lavorano 2-3 quintali ma centinaia di quintali, e tutte le fasi sono meccanizzate, le forme sono tutte perfettamente calibrate.  Il beaufort è comunque un ottimo formaggio ed è rimasta anche una produzione dl'alpeggio. Peccato che al nostro gusto "viziato" dai prodotti ribelli, allettato dalla "selvaticità" del vero bitto, esso - come altri formaggi savoiardo-svizzeri - ci ricordi sempre e un po' ossessivamente il gruyere.






Fig. 1 - Mappa dei formaggi a scalzo concavo. Sono tutti alpini, d'alpeggio e grassi (a latte intero). Il bitto/branzi è un esempio isolato dalla "famiglia" dei formaggi savoiardi (abondance e beaufort). Anche la fontina ha uno scalzo subconcavo (almeno spesso). 

Un segno di identità antico

L'area orobica può vantare una documentazione dello scalzo concavo del XV secolo (scusate se è poco
 meussieurs). Si tratta (l'ho già fatta vedere diverse volte della rappresentazione di un formaggio nelle "nozze di Cana" dell'Oratorio dei disciplini di Clusone. Perché lo scalzo concavo? Forse perché quando è duro (dopo l'anno di sicuro) il formaggio può essere conservato appoggiato sullo scalzo (non serve più girare le facce piatte perché non perde quasi più umidità). Forse perché è facile legare intorno una corda alle forme e appenderle (serviva a caricare facilmente i muli). 



Il "bitto dop", che alla sostanza della tradizione non è interessato (vai con i mangimi e i fermenti e chissenefrega se non c'è latte di capra), nel disciplinare precisa la caratteristica di "spigoli vivi" dello scalzo. Un risultato ottenibile con le fascere di plastica (che non si deformano, non si "piallano" con l'uso, non si degradano se non in migliaia di anni). Per fortuna che, causa l'umidità eccessiva all'interfaccia tra la fascera e la cagliata, molti stanno tornando indietro al legno che "sa" regolare l'eccesso di umidità della pasta di formaggio al suo contatto.   Per mantenere un "bello scalzo concavo" e dagli "spigoli vivi" il casaro deve rinnovare il parco fascere e utilizzare come combustibile le vecchie (di legno, ovviamente). Ma per sparagnare i casari le cambiano poco (la "sana economia contadina" non è applicata sempre a proposito ma, come è noto, si spendono follie per le trattrici, e si fa "economia" sulle fascere). Così tante volte si vedono "storici ribelli" (ex bitto storico) con lo scalzo diritto, che non è proprio bello da vedere (ma sempre meglio della diffusione della plastica). Meglio la sostanza o la forma? La sostanza. Senza dimenticare, ripeto, che nel formaggio la forma è anche sostanza.

L'apprezzabile modestia del formai de mut

Dopo tutta questa disgressione non si può fare a meno di dare ragione alformai de mut che per distinguersi dal branzi (e dal bitto) ha rinunciato ad una caratteristica molto particolare e interessante del gran formaggio d'alpe delle Orobie occidentali.  Il formai non pretende di eguagliare quella che è stata la gloria del vecchio bitto o del vecchio branzi, dichiara di essere una "versione più modesta" tanto che ammette l'uso del latte di due mungiture (quindi acidificato) laddove la grande qualità del bitto della tradizione è legata alla lavorazione due volte il giorno a munta calda. Significativo che nell'ambito del formai de mut si sia distinto, grazie al maestro casaro Abramo Milesi (peraltro fondatore e vicepresidente del Consorzio tutela del formai de mut), il camisolo. Prodotto solo nell'omonima alte il camisolo spuntava prezzi notevolmente superiori alformai de mut diventando, di fatto un formaggio a sé.
Il formai de mut è frutto di una regressione, di un depotenziamento del sistema alpicolturale altobrembano legato, come ho avuto modo di spiegare in altre occasioni, alla fissazione in pianura dei bergamini che, sino alla prima guerra mondiale, monopolizzavano gli alpeggi dell'alta val Brembana. Con meno vacche e meno esperienza di caseificazione commerciale i piccoli allevatori stanziali (i "casalini") impiegarono decenni a prendere il posto dei bergamini nonostente i tecnocrati, cui i bergamini stavano antipatici (perché non se li filavano) facessero di tutto per l'educazione tecnica paternalistica dei "villici". I casalini non riuscirono mai riempire il vuoto lascato dai bergamì e  parecchi alpeggi furono caricati da valtellinesi, che nel frattempo seppero "allargarsi" oltre il displuvio. Nel frattempo il vecchio branzi diventava un formaggio invernale semigrasso. Lo stesso formai de mut, di fronte all'esiguità della produzione si è ben presto ridotto ad ammettere la versione "invernale" con la distinzione tra etichetta blu (alpeggio) e etichetta rossa (invernale). Peraltro il molto discutibile disciplinare del 1985 lo ammetteva, consentendo anche l'insilato di mais nell'alimentazione delle vaccine (sarebbe da rivedere, no?).
Se il formai de mut è il frutto dell'impossibilità di perpetuare nelle nuove condizione dell'era post-bergamina le glorie del passato, dichiarandosi onestamente "diverso" dal gran formaggio d'alpe delle Orobie, il "bitto dop" è l'esito furbastro di una forzatura che ha "disaccoppiato" una tradizione secolare dalla sua matrice culturale e geografica.
Se in val Brembana le capre erano state perseguitate, crollando a poca cosa a fine Ottocento, non fu 
così in Valtellina dove il bitto continuò ad essere prodotto con il latte di capra (con l'eccezione di alcuni alpeggi di Albaredo a seguito di rimboschimenti e divieti che - nel periodo tra le due guerre - costrinsero a tenere le capre presso i maggenghi. Ma in Valtellina (la parte orobica, ovviamente, dove si faceva bitto) le capre vennero riammesse appena possibile in alpeggio. La possibilità di fare bitto dop senza latte di capra, prevista dal disciplinare nel 1995, era propedeutica all'estensione pansondriese del bitto dal passo dello Spluga al Gavia e a Livigno seconda un'operazione dettata dai saccenti guru del marketing del tempo che credevano che una produzione di alta qualità legata (almeno nominalmente) alla tradizione potesse avvantaggiarsi di "masse critiche" di mercato allo stesso modo di un prodotto seriale industriale.

Pendolarismi transorobici e denominazioni "pendolari"

Più approfondisco la storia del Gran formaggio d'alpe delle Orobie e più mi rendo conto che la matrice è unica e che le diverse denominazioni, i "ritocchi" ai parametri di produzione per "differenziarsi", le "perimetrazioni" ecc. sono tutti fattori che hanno immiserito una grande storia. La cosa più misera è consistita nel tracciare una linea di demarcazione artificiale tra i due versanti brembano e valtellinese delle Orobie.
Quando le Orobie erano divise tra tre stati sovrani (allora erano sovrani sul serio) c'era una circolazione di capitali, di competenze, di prodotti, di idee tra i versanti.  Oggi ce la sognamo. Che si trattasse di industria mineraria e di lavorazione del ferro o di formaggio i confini erano porosi, le famiglie operavano con rami di qui e di là.






Ma quale "bitto valtellinese", non c'entra un fico con la valtellinesità il bitto

La storia dei bergamini la dice lunga sul "bitto valtellinese". Natale Arioli ha dato nel 2016 alle stampe, per ora in edizione privata, un volume ("Oltre i ricordi, alla ricerca delle radici") che ricostruisce la dinastia di bergamini cui appartiene. Una dinastia che, con vari rami altobrembani (Piazzatorre, Mezzoldo), si era diffusa alla Bassa, non senza intrecciarsi con dinastie bergamine delle altre convalli brembane, della val Taleggio, della Valsassina, dell'alta Valseriana. In questo volume, più sistematicamente rispetto a scritti precedenti, emerge la secolare frequentazione degli Arioli degli alpeggi della Valgerola (presi in affitto). Bomino, Dosso cavallo, Pescegallo sono stati, tra XVI e XVIII secolo, caricati in modo continuativo dagli Arioli. E parliamo solo di una dinastia! Sappiamo che anche un altro grande alpeggio gerolese (Trona) è stato caricato per secoli da bergamaschi e valsassinesi (tutti bergamini). Se il cuore della produzione del bitto, la Valgerola era caricato da bergamini brembani e valsassinesi con quale facciatosta si può asserire che il bitto è un formaggio valtellinese? Se poi consideriamo che le famiglie della val Gerola e della val Tartano erano legate alla Valsassina e alla Valbrembana il quadro è sufficiente per concludere che il bitto è al 100% orobico, e se si vuole precisare e diventare un po' cattivi, allora dobbiamo aggiungere che è nato in Valsassina e Valbrembana.
Nei documenti citati da Arioli emerge anche che altri alpeggi orobici valtellinesi erano caricati da bergamini brembani oltre a quelli del comune di Gerola.
Il nome bitto, però, ha avuto successo anche se, per secoli, la stragrande maggioranza del Gran formaggio d'alpe delle Orobie era venduto fuori dalla Valtellina e chiamato diversamente. La via del bitto lo portava direttamente dagli alpeggi in Valsassina e a Lecco, la Priula a Mezzoldo e a Bergamo. Il formaggio di monte (o formaggio grasso) come era chiamatodopo l'affermazione a fine Settecento  della Fiera di san Matteo ai Branzi, divenne il "formaggio dei Branzi" e tale fu nell'Ottocento.
All'inizio del Novecento a Morbegno vi fu un fervore di iniziative: la Mostra casearia provinciale, (che non si chiamava "Mostra del bitto"), la realizzazione della casera sociale dei caricatori d'alpe. Iniziative che spostarono gradualmente da Branzi a Morbegno il baricentro. Quando Arrigo Serpieri, illustre economista agrario, si dedicò per la Società agraria di Lombardia all'indagine sistematica sui pascoli alpini, registrava ancora, parlando degli alpeggi delle Orobie valtellinesi (Società agraria di Lombardia, 1904) che la maggior parte della produzione di bitto era esitata ai Branzi. Ma nel 1907, quando uscì l'indagine sugli alpeggi bergamaschi, Morbegno era in fase effervescente e il Serpieri, che pure sapeva che ai Branzi si vendeva il branzi, chiamò "formaggio grasso tipo bitto" quello degli alpeggi altobrembani (riservando curiosamente la denominazione "branzi" a quello degli alpeggi delle convalli più orientali (di Carona e Roncobello). Si veda la Tab. 1 (che ho già presentato più volte).


Tabella 1 - Alpeggi dell'alta val Brembana all'inizio de XX secolo (da: Soc. agraria di Lombardia,I pascoli alpini della provincia di Bergamo, 1907)
Nome alpeggioComunePagheProdotto
PonteranicaS. Brigida60Formaggio grasso tipo Bitto
Parissolo*S. Brigida60idem
AvaroCusio173idem
Foppa*Cusio100idem
ColleAverara100idem
Ancogno*Averara e Mezzoldo180idem
GambettaAverara e Mezzoldo80idem
CantedoldoAverara e Mezzoldo90idem
Azzarino/Fioraro/M.te NuovoMezzoldo172idem
Azzarino/CalvettiMezzoldo90idem
Cavizzola*Mezzoldo82idem
SiltriMezzoldo58idem
TerzeraMezzoldo107idem
CavalloPiazza Torre97idem
Monte SeccoPiazza45idem
Torcola vagaPiazza118idem
Torcola solivaPiazza94idem
ToragelloMojo de’Calvi58idem
ToracchioMojo de’Calvi80idem
Arale V. con ScessiValleve300idem
SalineValleve70idem
AreteFoppolo100idem
CarisoleCarona e Foppolo700Branzi
SassoCarona191idem
ArmentagraCarona118idem
MersaCarona72idem
FoppeCarona66idem
SardignanaCarona55idem
Lago GemelloBranzi173idem
Valle OscuraBranzi80idem
Monte ColleBranzi133idem
MezzenaRoncobello197idem
GrumelloRoncobello45idem
ValliS. Brigida37Burro e formaggio magro
VagoValleve30?
FontaniniValleve60Stracchino
PiazzoliFoppolo35?
RoveraFoppolo28?
CadelliFoppolo20?
DordonaFoppolo18?
Val SambuzzaCarona133Formaggini freschi
AcquabiancaCarona105Stracchini di Gorgonzola
FoppoboneCarona33?
ZoppoBordogna30?

Da quanto detto si ricava: 1) che al tempo in cui il bitto consacrava la sua fama (secoli XVI-XVII) a produrre bitto erano per lo più bergamini brembani (compresi quelli di Tartano che era un'appendice brembana a nord del displuvio); 2) che il nostro formaggio nell'Ottocento era venduto per lo più a Lecco e a Branzi (qui con il nome di branzi); che all'inizio del Novecento osservatori autorevoli definivano "tipo bitto" il formaggio prodotto nella maggior parte degli alpeggi brembaniNon è finita. Come ho già ricordato in più occasioni che il branzi (anche quello prodotto sugli alpeggi di Gerola, considerata il cuore del bitto) era colorato con lo zafferano e cotto a temperature elevate (48-52°C) mentre il "bitto", ovvero quello esitato sulla piazza di Morbegno, era senza zafferano e cotto a 45-47°C. Il "bitto" era assimilato al bettelmat(formaggio morbido da consumare entro la primavera successiva), il "branzi", allo sbrinz (formaggio duro da grattugia). In realtà i bergamaschi consumavano "branzi" molto stagionato da grattugia. Oggi il bitto "valtellinese" dop si cuoce a 48-52°C, a 45-47°C il formai de mut"bergamasco". Per secoli i "bergamaschi" hanno caricato gli alpeggi delle Orobie valtellnesi, oggi parecchi alpeggi altobrembani sono caricati da valtellinesi. Di fronte a tutti questi sistematici veri e propri scambi di identità e di ruoli chi ha il coraggio di sostenere che bitto e branzi non fossero (almeno prima che il branzi diventasse un formaggio inverbale semigrasso) la stessa cosa? Quanto al formai de mut si è abbondantemente chiarito che sorge da quel ceppo come "adattamento a una situazione di depotenziamento".

Una sovrapposizione solo declinata al passato?

I soliti scettici diranno: "si ma tu ti riferisci a cose di un secolo minimo fa, figuriamoci poi cosa interessa a noi dei secoli precedenti". Potrei rispondere: "siete zotici, perché la profondità storica è quella che oggi fornisce vantaggi comparati sul mercato globalizzato". Ma senza polemizzare oltre veniamo a circostanze di pochi decenni fa e persino di oggi. Così accontentiamo anche gli zotici. Prego quindi leggere la Tab. 2 che si riferisce al momento d'oro del Formai de mut. Ottenuta la dop, il cav. Pierangelo Apeddu (morto nel 2014 senza che nessuno se ne ricordasse, ma su questo oblio torneremo presto) si diede molto da fare per convincere tutti o quasi i caricatori dell'alta val Brembana a sottoscrivere (almeno sulla carta) l'adesione al Consorzio di tutela. Così vediamo che anche i valtellinesi (i Colli, i Fognini, i Marioli, i Gusmeroli, i Duca, i Fallati) aderirono al formai de mut.
 Però continuarono a fare "tipo bitto" visto che non avevano le capre. Per il formai de mut quello era un pregio, perché così di demarcava dal bitto, che allora era ancora considerato tale solo con l'aggiunta di latte di capra. In ogni caso, anche senza dop, anche senza latte di capra, il bitto o "tipo bitto" continuava ad essere molto più rinomato (e pagato) del formai de mut (secoli di fama non si bilanciano con un riconoscimento burocratico). 

Tab. 2 -  da Consorzio tutela Formai de mut. Alta val Brembana, un palmo di terra. Una valle, una storia, "Il Formai de mut" , 1988






La famiglia Duca all'alpe di Ancogno soliva, ritratta come "produttrice di Formai de mut" nel libro celebrativo del 1988.


Una foto tratta dal libro del formai de mut che mostra come lo scalzo restava concavo. Chi faceva bitto continuò a fare bitto. Non buttavano certo via le fassere per far piacere ad Apeddu. Così il libro testimonia dell'ambiguità di questo formai del mut che era bitto (sotto la fascera con la nervatura centrale che imprime la concavità).


I caricatori d'alpe, convinti da Apeddu a entrare nel formai de mut, lo fecero aspettando gli eventi (furbizia contadina). La dop rappresentava un prestigioso traguardo ma non poteva scalzare il prestigio del bitto, specie perché il formai de mut si presentava, per sua scelta, come il "fratello povero" del bitto (lo abbiamo già spiegato: temperatura, pezzatura, durata minima di stagionatura. Così quando la Valtellina passò alla riscossa, con ritardo di 10 anni rispetto al formai de mut che aveva avuto dalla sua il ministro Pandolfi e  l'assessore regionale all'agricoltura Ruffini, Apeddu perse i produttori valtellinesi, che poterono fare legalmente bitto dop anche in Valbrembana (sono sette i comuni riconosciuto "da bitto" dal dsciplinare del bitto dop).
Ma la storia dei formaggi camaleonte, della battaglia della territorializzazione becera (anche andando contro la storia), del "sono più forte io", non cessò. Grazie a quei "fessi" dei ribelli, che tenevano eroicamente alta un'immagine di calecc', di capre orobiche, di sacrifici (nel mentre venivano presi allegramente per il culo dal Consorzio del bitto e casera e dalla Latterie di Delebio ecc.), il bitto mantenne il suo prestigio.  Il differenziale di prezzo tra bitto e formai de mut fece convertire al bitto (cioè alle palanchine) anche dei bergamaschissimi produttori gogis. Anzi, qualcuno (ed è una vera barzelletta che la dice lunga sulla serietà delle dop), tiene opportunisticamente il piede in due scarpe. Lo stesso alpeggio fa entrambe le dop.  Non lo possono fare i ribelli del bitto, i talebani della capra orobica, perché se hai le capre (e per fare l'ex bitto storico, ora storico ribelle, è obbligatorio) non puoi fareformai de mut.  Cosa distingue formai de mut e bitto dop? Il prezzo e, al massimo la furbizia di usare la fascera da scalzo concavo quando fai (dici di fare) bitto.
 


Tabella 3 - Produzione per alpeggio (anno 2015, fonte: consorzi)
AlpeComuneprodotto 1prodotto 2
CaseraCusioBitto dop
FoppeCusioBitto storico
ParissoloSanta BrigidaBitto storico
CulAveraraBitto dop
CantedoldoAveraraFormai de mut
Ancogno solivoMezzoldoBitto storico
CazizzolaMezzoldoBitto storico
MorettiFoppoloBitto dop
III BaitaFoppoloBitto dop
RoveraFoppoloBitto dopFormai de mut
SessiValleveBitto dopFormai de mut
AraleValleveBitto dopFormai de mut
Carisole CaronaBitto dopFormai de mut
Cosa mersaCaronaFormai de mut
TorracchioValnegraFormai de mut
Torcola solivaPiazzatorreFormai de mut





giovedì 9 giugno 2011

Bitto: formaggio orobico

In vista della prossima edizione di Cheese, che confermerà il rilievo assoluto dell'Unione dei formaggio orobici quale formidabile 'coalizione' di prodotti storici, pubblichiamo alcuni matriali sulla questione del Bitto più orobico che valtellinese


Nel riportare il baricentro del Bitto storico a Sud del crinale delle Orobie non c'è nessuna provocazione. Solo chi non conosce la storia può pensare che il Bitto sia un prodotto "della Valtellina e della Valchiavenna". Morbegno, che dopo secoli era riuscita a portare sul versante Nord la 'capitale del Bitto' approfittando di fattori di crisi che avevano colpito la Val Brembana casearia, sta perdendo di nuovo questo ruolo e non solo per poca lungimiranza.  C'è anche un elemento di 'indegnità morale' (la svendita della Dop, il fallimento della Mostra del Bitto, il malaffare testimonato dai recenti rinvii a giudizio di esponenti politici).

La triste parabola della Mostra del Bitto

La Mostra dei prodotti della montagna lombarda, che si era sviluppata a fianco della Mostra del Bitto, aveva rappresentato nelle sue prime edizioni un evento che aveva catallizzato e acceso molte speranze sul rilancio dell'economia montana ancora prima che si parlasse di sostenibilità ecc.  Ospitava iniziative culturali di buon livello, con convegni nell'auditorium ricavato nella ex-chiesa di S.Antonio cui partecipavano personaggi che avevano realmente a cuore la montagna.
 Le vie del centro storico si riempivano di gente. Poi, invece di puntare sul recupero dei chiostri dell'ex-convento domenicano e di perfezionare il modello di un evento che ha per teatro tutto il centro storico (come avviene a Bra con Cheese) si è puntato sul Polo fieristico, ovvero sulle strutture pesanti. Oggi tali strutture sono prevalentemente adibite a eventi musicali e per gli appalti della Hall (ma anche per i conti gonfiati della Mostra del Bitto al fine di estorcere alla Regione rimborsi surrettizi ) sono stati rinviati a giudizio personaggi di grosso calibro: Silvano Passamonti, per lungo tempo presidente della Comunità Montana e Luca Spagnolatti, direttore di 'Eventi valtellinesi'.  Ma a parte queste tristezze non meno deprimente è constatare che alla Mostra del Bitto sono messe in mostra le mercanzie più disparate, senza alcun legame con la montagna e la tipicità. Una parabola che segna il punto più basso di un percorso che, negli anni '80, quando la Mostra era in P.zza S.Antonio era iniziato con ottimi auspici favorendo la riscoperta di tanti prodotti tradizionali della montagna che sembravano essere stati cancellati dall'omologazione consumista e industrialista.
Morbegno e la Valtellina hanno avuto per quasi un secolo in mano il 'pallino' della valorizzazione di quello straordinario giacimento che è il Bitto. Hanno voluto esagerare, strumentalizzando la plurisecolare reputazione del Bitto per 'spingere' non solo la produzione di alpeggi che utilizzano mangimi e fermenti e che, in alcuni casi, miscelano il latte di diversi produttori ma anche una produzione massificata, il  'Casera' (il Consorzio 'ufficiale' tutela Valtellina Casera e Bitto). Il Valtellina Casera è  prodotto per lo più da due caseifici industriali e ottenuto da latte di vacche allevate, sempre per lo più, nel fondovalle in condizione di allevamento e alimentazione simili a quelle della pianura padana.
 Insieme alle più o meno lungimiranti strategie di marketing ha concorso alla 'sondrizzazione' del Bitto un malinteso 'patriottismo provinciale' che ricalca in scala ridotta quella tendenza alla naturalizzazione dei confini politici introdotta dalla cultura giacobina sulla scala della Nazione. Un 'patriottismo' e una marcatura di confini quanto mai artificiale quando applicata alla montagna dove il più delle volte i massicci vedevano culture omogenee sui diversi versanti e i confini erano costituiti più dalle acque che dai crinali. Sul versante  versante bergamasco questa discutibile tendenza ha prodotto la 'bergamaschizzazione' del Branzi. Così quando è stata creata la Dop Bitto i bergamaschi che avrebbero avuto molte cose da dire sono rimasti zitti. Il già citato Apeddu aveva manifestato la volontà di avanzare giuste obiezioni ma venne convinto a farsi le dop sue.
“Il Branzi era il vanto della produzione casearia della montagna bergamasca e veniva prodotto sugli alpeggi dei bacini di Valtorta, Mezzoldo, Val Mora. Val di Foppolo, Val di Carona e Val secca e proveniva dalla lavorazione del latte intero di vacca, ma alcuni vi aggiungevano anche una piccola parte di latte di capra” [1]
In realtà il ‘Branzi’, trasporato da muli o a dorso d’uomo proveniva in larga misura dalle valli orobiche valtellinesi. Il Melazzini, autorevole tecnico caseario formatisi alla Scuola di caseificio di Parma,  indicava l'origine del 'Branzi' nella val Tartano e nelle vallate orobiche più ad Est: Cervia, Madre, Livrio e Venina, l'area di produzione. Anche una parte della stessa produzione delle valli del Bitto, specie quella della valle di Albaredo, era destinata 'ai Branzi'  Il nome  'Branzi' derivava dalla località dell'alta val Brembana dove, alla fiera di S.Matteo di settembre, affluiva la produzione degli alpeggi della stessa val Brembana ma anche delle valli orobiche valtellinesi.  Interessante poi osservare che nel dualismo Bitto/Branzi abbiamo nel primo caso un riferimento ad un area di produzione, nel secondo ad un centro di commercializzazione (come nel caso del Bra e di altri noti formaggi).

Bitto o Branzi?

Il motivo è evidente: per secoli il ‘Branzi’ dal punto di vista commerciale (quantità) ha prevalso sul Bitto. Il prodotto perveniva a Branzi (o ‘ai Branzi’ come si diceva un tempo) da un’area abbastanza vasta (quindi abbastanza eterogenea) ed era ovvio l’interesse, per garantire un’identificazione univoca richiamare il punto di convergenza commerciale. Come dicevamo, però, il 'Branzi' era prodotto anche nelle Valli del Bitto, anche nella culla della Valgerola. Le prove storiche sono schiaccianti. Alcuni dei documenti storici più interessanti sulla gestione dell'alpeggio nelle Valli del Bitto sono costituiti dai registri  d'alpeggio di Orlando Curtoni (1676-1761) e dei figli Antonio e Gerolamo cistoditi persso l'Archivio parrocchiale di Gerola ed esaminati dall'amico Cirillo Curtoni [2]. I Curtoni caricavano l'Alpe Pescegallo Lago di Gerola. Nei registri del padre si indica la presenza di sue soci caricatori di Cusio in alta Val Brembana (di parentela Rovelli), il formaggio era venduto a Cusio e tra le spese figurava l'acquisto dello zafferano. Tutto il prodotto venduto in Bergamasca era colorato con zafferano (una tradizione che è rimasta viva nel caso del Bagoss e che nel Bitto/Branzi si è persa nel corso del '900). Begamo apparteneva alla Repubblica di Venezia, terminale del mercato delle spezie. Da Venezia, tramite Bergamo e la Via Priúla, lo zafferano saliva sin sugli alpeggi di qui e di là del Passo di S.Marco. Anche i figli di Orlando Curtoni hanno venduto il Branzi/Bitto in val Brembana (sono citate vendite a commercianti di Averara e di Cusio a volte con consegne alla Casera di S.Marcio sull' 'autostrada' della Via Priúla). Negli anni più recenti (arriviamo al 1800), le vendite a commercianti di Como si intensificano.  Ancora nel 1844 il formaggio dell'alpe Pescegallo Lago, però, risulta venduto sempre in alta val Brembana, a Mezzoldo (vedi riproduzione del documento sotto) come si ricava dal registo della ripartizione di spese e ricavi tra i tre soci caricatori: Bartolomeo Acquistapace , Antonio Curtoni e Ambrosetti Giovanbattista. Tra le spese figura sempre lo zafferano. Ergo si produceva 'Branzi'.



Viene da chiedersi se era solo lo zafferano a distinguere Branzi da Bitto, chiarito che gli stessi alpeggi erano in grado di produrre l'uno e l'altro. All'inizio del '900 il prodotto destinato a Branzi, era indicato dal Melazzini [3], un autorevole tecnico caseario formatisi alla Scuola di caseificio di Parma anche come  'uso grana', e si distingueva dal formaggio Bitto esitato a Morbegno per la maggiore durezza, determinata dalla cottura ad una temperatura più elevata.
"Si passa tosto alla cottura con fuoco abbastanza vivo così da portare il tutto in mezz'ora o tre quarti d'ora alla temperatura di 38-45° R. [47,5-56] °C pel formaggio uso grana; 34-38° R. [42,5-47,5°C] pel Bitto."
È facile osservare che le caratteristiche del Bitto attuale si avvicinano alla tipologia che il Melazzini, identifìcava con il ‘Branzi’ Tale tendenza è stata sancita definitivamente’con la standardizzazione introdotta dal disciplinare della Dop. Uno ‘scambio di identità’ che secondo noi non fa che confermare l’osmosi tra i due versanti orobici ed un secolare scambio di esperienze e di prodotti. A conferma di una identità largamente sovrapponibile è interessante osservare che, nell'ambito della stessa pubblicazione che riportava lo studio del Melazzini, l'autorevolissimo Arrigo Serpieri nell'Inchiesta sui pascoli alpini della provincia di Bergamo [4] indicava come 'Branzi' la sola produzione degli alpeggi delle convalli di Carona e Val secca (vedi Tab. seguente. Nella maggior parte dei casi (tranne dove la quantità di latte non era sufficiente a produrre una forma) si produceva quello che Serpieri definiva 'tipo Bitto' riservando al solo prodotto delle Valli del Bitto la denominazione 'Bitto'.


Tab. 1 - produzioni casearie degli alpeggi delle valli dell'alta Val Brembana agli inizi del '900



Valle
Nome alpeggio
Comune
Paghe
Prodotto
Val Mora
Ponteranica
S. Brigida
60
Formaggio tipo Bitto
Parissolo
S. Brigida
60
Formaggio tipo Bitto
Valli
S. Brigida
37
Burro e formaggio magro
Avaro
Cusio
173
Formaggio tipo Bitto
Foppa
Cusio
100
Formaggio tipo Bitto
Colle
Averara
100
Formaggio tipo Bitto
Ancogno
Averara e Mezzoldo
180
Formaggio tipo Bitto
Gambetta
Averara e Mezzoldo
80
Formaggio tipo Bitto
Cantedoldo
Averara e Mezzoldo
90
Formaggio tipo Bitto
Val di Mezzoldo
Azzarino con Fioraro e Monte Nuovo
Mezzoldo
172
Formaggio tipo Bitto
Azzarino-Calvetti
Mezzoldo
90
Formaggio tipo Bitto
Cavizzola
Mezzoldo
82
Formaggio tipo Bitto
Siltri
Mezzoldo
58
Formaggio tipo Bitto
Terzera
Mezzoldo
107
Formaggio tipo Bitto
Cavallo
Piazza Torre
97
Formaggio tipo Bitto
Monte Secco
Piazza
45
Formaggio tipo Bitto
Torcola vaga
Piazza
118
Formaggio tipo Bitto
Torcola soliva
Piazza
94
Formaggio tipo Bitto
Toragello
Mojo de’Calvi
58
Formaggio tipo Bitto
Toracchio
Mojo de’Calvi
80
Formaggio tipo Bitto
Foppolo
Vago
Valleve
30
?
Arale V.
Valleve
300
Formaggio tipo Bitto
Scessi
Valleve
Fontanini
Valleve
60
Stracchino
Saline
Valleve
70
Formaggio tipo Bitto
Piazzoli
Foppolo
35
?
Arete
Foppolo
100
Formaggio tipo Bitto
Rovera
Foppolo
28
?
Cadelli
Foppolo
20
?
Dordona
Foppolo
18
?
Valle di Carona e Val Secca
Carisole
Carona e Foppolo
700
Branzi
Val Sambuzza
Carona
133
Formaggini freschi
Sasso
Carona
191
Branzi
Armentagra
Carona
118
Branzi
Mersa
Carona
72
Branzi
Foppe
Carona
66
Branzi
Acquabianca
Carona
105
Stracchini di Gorgonzola
Sardignana
Carona
55
Branzi
Foppobne
Carona
33
?
Lago Gemello
Branzi
173
Branzi
Valle Oscura
Branzi
80
Branzi
Monte Colle
Branzi
133
Branzi
Mezzena
Roncobello
197
Branzi
Grumello
Roncobello
45
Branzi
Zoppo
Bordogna
30
?



In ogni caso, sia la perentoria classificazione del Melazzini, che distingueva il Bitto dal Branzi sulla base di precisi parametri tecnologici, che quella del Serpieri, che discriminava su base geografica il Bitto dal ‘tipo Bitto’ (prodotto sugli alpeggi della val Brembana, delle valli retiche Masino e dei Ratti, delle altre vallate orobiche e anche della valle Albano nel Lario occidentale) esprimono le inevitabili ambiguità di un complesso processo di costruzione della tipicità. In bilico tra la definizione tecnologica e quella geografica, tra orientamenti qualitativi imposti dalla domanda (e mediati dai commercianti) e determinanti legate a fattori produttivi (competenze dei casari, qualità dei pascoli, sistema alpicolturale  e manipolazione del latte).  La produzione del Bitto, in ogni caso, era fatta coincidere con un vertice di eccellenza ed era associata ad un’area omogenea e ristretta all’interno di un’area allargata dove si produceva ‘Branzi’ o ‘tipo Bitto’ che dir si voglia. La mappa originale sotto riportata cerca di definire una 'geografia storica del Bitto'.

Fig. 1 - Mappa del Bitto : in rosso l'area storica, in giallo aree con produzione di formaggio grasso 'tipo Bitto' in almeno parte degli alepeggi della zona attestata all'inizio del '900 e in parte ancora attuata. In rosa un'area 'antica' di produzione del Bitto che ha lasciato spazio, sin dall' '800 ad un prevalente orientamento verso la produzione di formaggelle e formaggio semi-grasso (nostra elaborazione)

Mors tua, vita mea

È stata – come vedremo tra breve - la crisi delmercato di sbocco di Branzi a decretare la consacrazione del Bitto una consacrazione alla quale ha sì contribuito una consapevole ‘strategia della tipicità’ giocata da Morbegno sin dagli inizi del secolo scorso (con la prima Mostra del Bitto nel 1907 e la realizzazione della Casera sociale dei caricatori d'alpe di Morbegno), ma che dovuta prevalentemente ad una crisi 'endogena' del Branzi.  Alla fine dell'Ottocento gran parte della produzione del Bitto si commercializzata sulla piazza di Branzi  dove venivano  commercializzate alla Fiera in totale circa 10.000 forme. Al mercato di Branzi negli anni precedenti il primo conflitto mondiale la produzione di . Branzi ivi esitata era valutata in 1.300 q.li. da Branzi il prodotto era inviato agli stagionatori di Bergamo da dove poi raggiungeva diverse piazze della Lombardia e del Veneto e anche le rivendite romane gestite da valtellinesi:
 "Nella fiera del formaggio dei Branzi si concentrava, un tempo, gran parte del Bitto prodotto in Bergamasca e in Valtellina, che affluiva su numerose piazze in Lombardia, nel Veneto e a Roma tramite valtellinesi dei Cek e della Valmasino che, già allora, vi gestivano negozi alimentari. Quella fiera ne manteneva inoltre elevato il prezzo" [5]

Declino della Fiera di Branzi, il 'nuovo' Branzi, una versione 'minore: il Formai de Mut

Già negli anni precedenti il primo conflitto mondiale, però, si assistette ad un declino del ruolo della Fiera di S.Matteo quale mercato del Bitto. Nel 1910 furono venduti 1.910 i q.li di formaggio, scesi a 1.300 nel 1913. Questo declino era legato, almeno in parte, al potenziamento concorrenziale del ruolo di Morbegno che dopo aver 'agganciato' i prezzi di Branzi riuscì a imporne di superiori.  Dopo la prima guerra mondiale la piazza di Branzi conobbe una profonda crisi con una drastica riduzione della quantità di formaggio grasso trattata che scese a soli 830-850 q.li negli anni Trenta [6].
La crisi di Branzi era determinata a due ordini di fattori: 1) laconcorrenza del grana prodotto a costi sempre più competitivi dai caseifici della Bassa metteva fuori mercato il prodotto di Branzi, che i grossisti bergamaschi commercializzavano quale formaggio da grattugia; 2) la riduzione col numero delle vacche da latte caricate dai bergamini transumanti che, sempre più spesso, nel periodo Ira le due guerre, tendevano a mantenere per tutto l'anno in pianura le bestie lattifere più produttive monticando solo animale asciutto, proprio o ‘preso a guardia’ dagli affittuari della Bassa. Va osservato a questo proposito che, al di là del declino della piazza di Branzi, questo movimento di ‘fissazione' dei bergamini verso l'esercizio dell'alpeggio nelle valli brembane (che, gradualmente, assumeva anche il carattere di una definitiva fissazione in pianura), comportò anche l'inversione di una secolare corrente di migrazione stagionale per l'alpeggio che aveva visto i mandriani bergamaschi caricare gli alpeggi del versante orobico valtellinese. Dal periodo tra le due guerre mondiali in poi saranno i cargamuunt valtellinesi a prendere in affitto gli alpeggidell'alta valle Brembana.
Per reagire alla riduzione della produzione degli alpeggi che comportava sia un ridotto carico di bestiame che la vendita a Morbegno dello stesso prodotto degli alpeggi sul versante brembano, si iniziò da parte della Latteria Sociale di Branzi a produrre un 'nuovo' Branzi invernale ottenuto per parziale scrematura del latte della mungitura serale. Dimensioni e forma rimasero uguali al prodotto tradizionale degli alpeggi (compresa la classica concavità dello scalzo, comune con il Bitto). Una piccola produzione di Branzi d'alpeggio è continuata sino ad oggi. Non ha contribuito a risollevare le sorti della gloriosa tradizione casearia brembana la 'nascita' del Formai de Mut (a partire dagli anni '70-'80). Che il formaggio d'alpeggio della Val Brembana fosse il Branzi era noto a tutti ma il Formai de Mut, più piccolo e con lo scalzo diritto , ottenne la Dop nel 1985 grazie alla già ricordata amicizia del patron del Formai de Mut stesso, il comm. Pierangelo Apeddu con l'allora ministro dell'agricoltura Filippo Maria Pandolfi. Il consorzio del Formai de Mut ha subito diverse traversie. Bitto storico, Branzi e Formai de Mut da qualche tempo hanno però compreso che la matrice da cui derivano è la stessa e che la collaborazione tra 'orobici' è la via da seguire per superare le contraddizioni che hanno offuscato una storia prestigiosa.

Una storia comune che va molto indietro nel tempo

La documentazione iconografica più antica, almeno a mia conoscenza, relativa ad un formaggio con caratteristiche esteriori simili al Bitto risale al 1470 e riguarda un affresco (le nozze di Cana) del ciclo della vita di Gesù dipinto dal pittore clusonese Giacomo da Buschis detto Borlone. Sulla tavola, oltre a dei pani, un formaggio duro e verosimilmente ben stagionato.


Il particolare interessante consiste nel fatto che la forma è appoggiata sul tavolo non di piatto ma di taglio, cosa possibile in quanto lo scalzo e manifestamente concavo. Come oggi. Sulla presenza a Clusone di un formaggio ‘antenato’ del Bitto non c’è da farsi meraviglia. Le valli del Bitto e la limitrofa Val Tartano sono sempre state strettamente collegate alla Val Brembana. Quanto alla Val Seriana c’è da dire che se la produzione casearia si è orientata da lungo tempo alle ‘formaggelle’ è anche vero che la tecnica del formaggio semigrasso (ma anche grasso) è tutt’altro ignota ancora oggi. Era certo più in auge nel passato. Guarda caso un’altra preziosa fonte iconografica la troviamo a Castione della Presolana, al Santuario della Madonna di Lantana dove nella pala settecentesca raffigurante S. Lucio, patrono dei casari e degli alpeggi un angiolo sorregge una maestosa forma di ‘Bitto’ che dallo scalzo, dal colore della pasta, dalla scagliatura della stessa appare in tutto e per tutto un Bitto di lunga stagionatura. Inutile sottolineare che la pala è il frutto del mecenatismo dei relativamente ricchi bergamini dorghesi.


Il motivo di questa presenza del Bitto in Val Seriana è da ricollegare ad un’area storica allargata’ che, in passato, era più estesa e che coincideva con la presenza sugli alpeggi dei già ricordati  ‘bergamini’ o ‘malghesi’. Direttamente o indirettamente il ‘boom’ della transumanza, che consentì di aumentare notevolmente il patrimonio zootecnico bovino tra '500 e '600 influenzò anche le valli orobiche del versante valtellinese dove alcuni malghesi bergamaschi acquistarono o affittarono alpeggi o entrarono in società con elementi locali. La presenza nelle valli orobiche valtellinesi, soprattutto in Val Tartano, di cognomi di origine bergamasca conferma come, nonostante il confine di stato che divise le Orobie dal 1428 al 1797, l’osmosi tra i due versanti fosse profonda. Un’osmosi che durerà sino ad oggi, nonostante i confini di stato, e testimoniata anche da cause secolari per l’utilizzo degli alpeggi della valle del Bitto da parte di transumanti bergamaschi (legati al diritto di transito)[7].

Paradossalmente è stato con l'abolizione dei confini di Stato che dividevano le 'tre signorie': Stato di Milano, Repubblica di Venezia, Grigioni che il 'confine' è diventato, dopo Napoleone,  meno permeabile. Un fatto legato alla burocratizzazione della vita sociale con la conseguente dipendenza dai centri amministrativi e da un nuovo sistema di viabilità che penalizzava i collegamenti tra valli.  Ma oggi la 'comunità di massiccio' riprende significato .

Note

6. Provincia di Bergamo, op. cit.
7. Ruffoni, op. cit.