RIPARTE LA CAMPAGNA SI SOSTEGNO ALLO STORICO RIBELLE (EX-BITTO STORICO)

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lunedì 25 luglio 2016

Il grande amico dei ribelli del bitto


Il rapporto tra Piero Sardo e il Bitto ribelle (si è chiamato Bitto Valli del Bitto tra il 2003 e il 2009 e Bitto storico tra il 2010 e il 2016) data al 2005. In realtà Slow food, intuendo che dietro quel gruppo di ostinati difensori della tradizione c'erano i valori che la chiocciola stava iniziando a difendere in modo organico, si era avvicinata a Ciapparelli & C sin dal 2001. Fu Giacomo Moioli, lecchese ed allora esponente di spicco della chiocciola (vice di Petrini)  a stringere i primi contatti con i ribelli.

Il presidio nacque nel 2003 quando, dalle parti del Consorzio ufficiale e delle altre organizzazioni legate all'agroindustria casearia , si chiedeva ormai apertamente di poter produrre bitto dop con i mangimi e i fermenti in bustina. La minaccia era evidente. Era la fine del bitto autentico. Bisognava correre ai ripari. Entrò in scena Piero Sardo, personaggio autorevole di Slow food, ma anche figlio di formaggiai, e quindi uno dei pochi  dentro la chiocciola che - in mezzo a tanti esperti di comunicazione - capisse  di formaggio.   Sardo interviene in una fase drammatica per i produttori storici, quando devono decidere se uscire dal Consorzio ufficiale e dalla dop. Nascono allora i ribelli del bitto. E se sono sopravvissuti sino ad oggi, non schiacciati dall'impari rapporto di forze e di risorse tra loro e il loro nemici , si deve non solo alla loro tenacia e al loro coraggio, ma anche a Piero Sardo.

Slow Food ha costruito con i ribelli un rapporto largamente basato sul ruolo di garante di Piero Sardo. Egli, rischiando in proprio, intuì che bisognava dare credito al coriaceo condottiero degli allora sedici casari ribelli. Ha difeso Ciapparelli e i suoi in innumerevoli circostanze, anche quando all'interno di Slow food qualcuno storceva il naso preferendo Presidi più "tranquilli" (e finanziati dalle istituzioni).
Dipinti come dei talebani, inaffidabili, rissosi, volubili i ribelli e il loro capo-clan, che evocava i miti celtici,  potevano apparire ‘un po’ troppo’ anche per Slow Food. Di certo Ciapparelli non era e non è un personaggio politically correct.  Nel concedergli piena fiducia Piero Sardo ha dovuto basarsi molto sul proprio intuito, sui segnali che raccontavano di persone sincere e di una causa sacrosanta, in grado di riassumere in sé tutte le ragioni di una ribellione non solo contro il sistema distorto delle Dop ma anche contro modelli economici, politici, culturali che hanno imposto all'agricoltura, alla montagna le logiche dell'agroindustria, della standardizzazione produttiva, dei numeri e delle organizzazioni controllate dall'alto.

 Non era facile trattare con Ciapparelli, ai tempi personaggio più ostico di oggi (nel tempo alla fermezza ha saputo coniugare l'ironia). Dieci anni fa il "venditore di piastrelle" (come rimarrà sempre per i suoi nemici) di sostenitori ne aveva ancora pochi ed era costretto a tenere sempre il coltello tra i denti per non cadere nelle insidie di un avversario tanto più forte. Va dato atto a Sardo di aver saputo guardare oltre i condizionamenti culturali che avrebbero forse indotto un po’ più di diffidenza per un polemico leghista valtellinese (poi la Lega passò dai proclami pro tradizione e identità alla realpolitik  e Ciapparelli si concentrò sulla sua battaglia dimenticandosi dei partiti). 

In ogni circostanza,  in undici  anni fatti di rotture e di "tavoli", di insidie, di minacce, Sardo ha  tenuto fermo questo criterio: “quello che decidono i produttori nella loro autonomia va bene anche per Slow Food”.  Un criterio che Slow food (a volte con un po' riluttanza da parte di qualche "colonnello")  ha accettato. Grazie a questa figura di "commissario straordinario per gli affari del bitto" si è potuta stabilire una linea rossa diretta tra i produttori storici e Bra, che ha consentito decisioni rapide ed efficaci nei momenti critici.  Solo così il bitto ribelle ce l'ha fatta.

Sardo è stato sempre a fianco dei produttori ribelli e la sua presenza ha sventato non poche minacce. Tra il 2007 e il 2009 vi fu un periodo di ambigue "trattative" (come nel 2014) cui Sardo partecipò sostenendo con decisione la causa dei ribelli. Nella primavera del 2008, finita la "tregua" per il Centenario della Mostra di Morbegno, le timide aperture che avevano coinvolto un sottosegretario all'agricoltura a Roma e un direttore generale della Regione Lombardia, furono dimenticate. Si tornava a chiedere la resa senza condizioni: il rientro nel Consorzio ufficiale dei ribelli. Sardo dichiarò:

La situazione del Bitto è la più critica tra tutte quelle della Dop, prima di tutto perché la trattativa non si è mai realmente sviluppata a seguito degli incontri in Ministero. Per questo in assenza di un riconoscimento della sottodenominazione e della creazione di due disciplinari distinti, procederemo al ricorso all’Unione Europea. (La Provincia di Sondrio, 8 marzo 2008).


Intanto in regione cambiò anche l'assessore. Il nuovo, Ferrazzi, dichiarò di essere deciso a risolvere il problema del bitto e aprì un tavolo. La bozza partorita dalla burocrazia regionale  denominata “Valorizzazione della Produzione del formaggio Bitto e della zootecnia di montagna” prevedeva, di fatto, lo scioglimento dell’Associazione dei ribelli e l’adesione dei singoli soci al C.t.c.b ,da cui erano polemicamente usciti nel 2005.  Su questa base la regione era disponibile a valorizzare oltre al Bitto dop ‘generico’ anche quello del Presidio Slow Food “attraverso specifiche attività di promozione e comunicazione” ma anche “attività di ricerca e formazione”. In cambio l’Associazione (e il C.t.c.b.) si dovevano impegnare a cessare ogni contenzioso : “in particolare di natura giurisdizionale nonché sotto il profilo della comunicazione, e si impegnano sulla base comune disciplinata dalla normativa comunitaria a sviluppare anche attraverso azioni sinergiche e, in ogni caso, non contrastanti e denigratorie, l’obiettivo di valorizzare l’insieme delle Produzioni del formaggio Bitto”. Sono le stesse cose che si sentono anche oggi: una strategia di inganno che va avanti dall'inizio della guerra del bitto. La Regione , il Consorzio e tutto l'ambiente agroindustriale valtellinese temevano il minacciato esposto alla UE dei ribelli e di Slow food. Ma temevano anche la campagna (allora con mezzi più limitati di oggi) di informazione ai consumatori e ai cittadini.

Quel "tavolo" del 2008 era però più pericoloso di quanto potesse apparire perché la Regione lasciava trasparire che avrebbe sostenuto generosamente i presidi Slow food se la Chiocciola avesse mollato al suo destino Ciapparelli.  Nella primavera del 2009, di fronte alla inconcludenza del fantomatico ‘tavolo’ aperto in regione - Piero Sardo che non aveva voluto neppure sentir parlare di "patti scellerati"  a danno del bitto ribelle - in qualità di rappresentante della Fondazione Slow Food per la biodiversità, inoltrava,  insieme a Paolo Ciapparelli, inoltrava  una memoria  alla Commissione Europea in merito alla modifica del disciplinare di produzione del bitto dop. La Commissione insabbiò tutto dichiarandosi incompetente.

Nell'autunno 2009 arrivarono le famose sanzioni della "Repressione frodi" , invocate dall'assessore provinciale De Stefani . Nel 2010 Slow food concesse al neonato bitto storico l'uso del marchio della chiocciola quale "scudo". Il resto è storia recente. Ma anche tutti i difficili passaggi sostenuti dai ribelli dal 2010 ad oggi sono stati seguiti con attenzione da Sardo che, poche settimane fa, era a Gerola (foto sotto).

In tanti anni una sola volta si è creata un'incomprensione con Sardo: al Salone del gusto del 2012 quando qualcuno di Slow food pensò di accettare il dixtat della regione Lombardia che non gradiva la presenza del Bitto storico  troppo vicino allo stand istituzionale.  A Ciapparelli era stato chiesto il consenso a sloggiare da dove era previsto lo stand del Presidio ed egli per non "creare problemi" accettò. Ma la notizia trapelò e finì in grande evidenza su la Provincia di Sondrio e l'Eco di Bergamo. Sardo ne fu amareggiato perché si presentava la cosa come un tradimento da parte di Slow food.  Sardo si sentì messo in mezzo, pur non essendo stato lui a ricevere la proposta "scandalosa" della Regione. Tanto era solida e sincera l'amicizia tra Sardo e i ribelli, tra Sardo e Ciapparelli che l'episodio fu presto archiviato. 

Sardo è persona che agli ideologismi antepone una sincera umanità (da non confondere con il buonismo), che non ama la visibilità, ma che opera con un'autorevolezza che gli viene dalla coerenza e dal credere realmente nei valori proclamati. Incontrare sulla propria strada un personaggio così è stata per i ribelli una delle fortune più grandi. Grazie Piero per quello (tanto) che hai fatto e che farai per la causa del bitto buono pulito e giusto.



giovedì 13 novembre 2014

Slow Food saluta con entusiasmo la rivincita del Bitto


Slow Food saluta con entusiasmo l'accordo tra il Consorzio salvaguardia del Bitto storico e il Consorzio tutela Bitto e Valtellina Casera con le parole di Piero Sardo, grande amico e sostenitore del Bitto storico, sempre  al fianco del produttori anche nei passaggi più difficili e impegnativi anche per la chiocciola.  





fonte: http://www.fondazioneslowfood.it/pagine/ita/news/dettaglio_news.lasso?-idn=330#.VGRv6PmG98H



La rivincita del Bitto/Bitto's victory

12/11/14


Si dice che i montanari abbiano la testa dura. Ed è così a ben guardare la storia dei ribelli del bitto. Storia che ieri ha avuto il suo epilogo finale con la firma dell'accordo tra il Conzorzio per la salvaguardia del Bitto storico, il comune di Gerola e il Consorzio di Tutela formaggi Valtellina Casera.

Ma procediamo con ordine. Bisogna risalire a vent'anni fa, al 1994, quando ha inizio la contestazione dei produttori dell'area storica del Bitto (Valli del Bitto) nei confronti di una Dop che allargava la produzione a tutta la provincia di Sondrio. Una contestazione che divenne più aspra con la modifica del disciplinare e l'introduzione dei mangimi nell'alimentazione in alpeggio e dei fermenti selezionati (2005), con la temporanea uscita dei produttori storici dalla Dop (2006) e con le sanzioni comminate dal Ministero nei loro confronti (2009).



Nel frattempo però i produttori non si sono dati per vinti e hanno trovato numerosi compagni di strada. Giornalisti, gastronomi, associazioni ma soprattutto Slow Food che, con loro, ha avviato un Presidio con un disciplinare di produzione severissimo: il Bitto storico prevede l'uso del 10-20% di latte di capre orobiche, la produzione esclusivamente sui pascoli (tra i 1400 e i 2000 metri) durante i mesi estivi , l'uso della legna per alimentare il fuoco sotto il paiolo in cui si riscalda il latte (arricchisce l'aroma del formaggio), l'uso di attrezzi in legno anziché di solo acciaio o plastica (contribuiscono a mantenere e sviluppare la microflora spontanea del latte e quindi dona caratteristiche organolettiche particolari a ogni forma), la salatura a secco nelle fascere di legno (favoriscono la formazione di una crosta più delicata sul formaggio, ottenendo quindi una migliore maturazione).

Il bitto ha partecipato a tutti gli eventi Slow Food, ai Mercati della Terra, ai gruppi di acquisto e agli scambi tra produttori di tutto il mondo diventando un emblema internazionale di resistenza casearia e di tutela della biodiversità. Inoltre l'associazione dei produttori del Presidio alcuni anni fa avviò in Val Gerola (provincia di Sondrio, Italia) un centro di affinamento e promozione, collettivo, per valorizzare la produzione del bitto. Per reggere lo sforzo finanziario necessario è stata istituita un'apposita Spa che ha raccolto adesioni e finanziatori anche tra privati non legati al mondo della caseificazione. Il progetto in questi anni ha rilanciato il prodotto d'alpeggio, assumendo il ruolo di facilitatore nella filiera e di polo di promozione di questo prodotto supportando così la comunità di produttori e la loro attività di gestione dei pascoli.

Oltre a resistere, i ribelli si sono rafforzati (costituendo un problema crescente per chi si rifiutava di legittimarli), portando così a un cambiamento e all'accordo di oggi con le istituzioni.

«Per anni in Italia (con qualche eccezione, specie nel settore enologico)», ha affermato Paolo Ciapparelli, referente storico del Presidio «la 'compattezza' di un prodotto e di un territorio si è misurata sulla negazione delle differenze. In Francia, dove le denominazioni di origine risalgono al XIX secolo, i grandi vini prestigiosi hanno adattato le Doc a sistemi di classificazione che valorizzano le eccellenze sancite dalla storia, corrispondenti ad aree limitate ed elevatissimi livelli qualitativi. Esse trascinano a cascata aree produttive più vaste. Le decine di migliaia di bottiglie trascinano i milioni. Il modello Bitto (su scala ridotta) può funzionare nello stesso modo con vantaggio reciproco».

 «Caseificazione eroica: è il solo modo corretto di definire l'attività degli allevatori del Bitto quando salgono in malga e fanno formaggio» dichiara Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus. «Fatica, dedizione, saper fare, testardaggine: tutte caratteristiche che valgono a definire la loro visione della vita e delle proprie tradizioni e che probabilmente ha pochi eguali nel mondo. Ed ora finalmente vedono riconosciuta ufficialmente la loro specificità: è un bel giorno per altri piccoli produttori che possono sperare di ottenere lo stesso risultato, è un bel giorno per Slow Food che li ha sempre accompagnati rispettandone le decisioni, ma soprattutto è un magnifico giorno per loro, per i ribelli del Bitto che ora possono guardare al loro futuro con maggiore tranquillità».

Non c'è esempio migliore di questo, dunque, per esemplificare la forza e l'importanza della rete. Di Slow Food e dei suoi Presìdi.

English version

They say that the people of the mountains are stubborn, and the story of the Bitto rebels certainly bears this out. The final chapter in the story came yesterday with the signing of an agreement between the Consorzio per la Salvaguardia del Bitto Storico (the consortium for safeguarding heritage Bitto), the municipality of Gerola and the Consorzio di Tutela Formaggi Valtellina Casera (the consortium for the protection of Valtellina Casera cheese).

But first let's go back to the story's beginning, 20 years ago, in 1994, when the producers from the historic Bitto area (the Bitto valleys) began their fight against a PDO (protected denomination of origin) that expanded production to the whole province of Sondrio. The struggle became even more bitter with changes to the specifications and the introduction of feed to the Alpine pasture diet and selected starter cultures (2005), the temporary exit of the historic producers from the PDO (2006) and the sanctions imposed on them by the Italian Agriculture Ministry (2009).

The producers never gave up, however, and along the way they found many supporters: journalists, gastronomists, associations and, above all, Slow Food, which worked with them to set up a Presidium with a very strict production protocol. Heritage Bitto must be made with the addition of 10 to 20% Orobica goat's milk and can be produced only in mountain pastures (at altitudes between 1,400 and 2,000 meters above sea level) during the summer months. Wood must fuel the fire under the cauldron in which the milk is heated, adding complex layers to the cheese's final aroma. Wooden utensils must be used instead of just steel or plastic, which helps to maintain and develop the milk's natural microflora and give specific sensory characteristics to each cheese. The cheeses must be dry-salted inside their wooden molds, to encourage the development of a more delicate rind and ensure better aging.

Bitto has featured in all of Slow Food's major events, the Earth Markets and buying groups, and the producers have taken part in exchanges with other cheesemakers from all over the world. Bitto has become an international emblem of Slow Cheese and biodiversity protection. A few years ago, the Presidium producers' association opened a collective aging and marketing center in the Gerola Valley, in the province of Sondrio, to promote Bitto production. To raise the necessary investment, a limited company was set up to gather support and funding, including from individuals not connected to the cheesemaking world. The project has relaunched the mountain cheese, taking on the role of facilitator within the distribution chain and promotion hub for the cheese, supporting the community of producers and their pasture management activities.

Over the years, the rebels have grown stronger, creating an increasing problem for those who refused to legitimize them. This has eventually led to a change in the situation and the current agreement with the authorities.

"With some exceptions, especially in the wine sector, for years in Italy the ‘cohesion' of a product and a place was measured based on the negation of differences," said Paolo Ciapparelli , the Presidium's long-standing coordinator. "In France, where the denominations of origin date back to the 19th century, the big prestigious wines have adapted the DOCs to classification systems that add value to historically excellent products, corresponding to limited areas and very high quality levels. They end up pulling larger productive areas behind them. The tens of thousands of bottles stimulate millions. The Bitto model, on a reduced scale, can work in the same way, with mutual advantages."

According to Piero Sardo, the president of the Slow Food Foundation for Biodiversity, "heroic cheesemaking" is the only way to define the work of the Bitto farmers as they make cheese up in the Alpine pastures. "Hard work, dedication, know-how, stubbornness: all characteristics that can be used to define their vision of life and their traditions, a vision which probably has few equals in the world. And now finally they are seeing their distinctiveness being officially recognized. This is a good day for other small-scale producers who can hope for a similar result. It is a good day for Slow Food, which has always supported them, respecting their decisions. But most of all, it is a magnificent day for them, for the Bitto rebels who can now look more happily to their future."

We can think of no better example of the strength and importance of the network, of Slow Food and its Presidia.

venerdì 4 novembre 2011

Si può fare promozione senza sprecare denaro pubblico (e a favore dei piccoli produttori)

(04.11.11) Il bilancio più che positivo della manifestazione "Formaggi in piazza" a Sondrio rende inevitabile il confronto con la 'pesante' e fallimentare Mostra del Bitto (che con il Bitto c'entra poco) di Morbegno esempio di 'promozione istituzionale'

A Sondrio con una spesa forse cento volte inferiore della Mostra del Bitto di Morbegno è stato realizzato un evento che ha riempito le piazze e lasciato soddisfatti gli espositori (quasi tutti piccoli produttori artigianali di formaggi) e i pubblici esercizi
Bilancio più che positivo per "Formaggi in piazza" l'evento dedicato alle produzioni di montagna che, arrivato alla sesta edizione, ha registrato un netto salto di qualità e di interesse. La mostra-mercato, che si è arricchita di eventi e attrazioni è costata al comune di Sondrio tre-quattro mila euro.


Il bilancio di "Formaggi in piazza" è in attivo non solo perché è costata poco ma anche perché ha offerto molto: stati presenti 65 espositori (che  hanno registrato buone vendite),  centinaia di bambini hanno potuto fruire dell'asinovia ci sono stati convegni, degustazioni, dimostrazioni di home brewing e di antichi mestieri, ristoranti e trattorie hanno lavorato molto bene.


Certo per offrire tutte queste cose c'è stato un impegno che va oltre la misera cifra sopra indicata. C'è stato l'impegno in prima persona degli amministratori (a cominciare dell'assessore al commercio Francesco Ferrara) e dei funzionari comunali, c'è stato l'apporto di volontariato appassionato e competente dei soggetti che hanno collaborato con il comune: Slow Food e il Consorzio salvaguardia Bitto storico con i suoi 'alleati' bergamaschi. Sono state poi sfruttate in modo intelligente strutture esistenti: innanzitutto le belle piazze cittadine, poi il Centro Le Volte. Quest'ultima è una struttura dedicata al vino e ai prodotti del territorio realizzata attraverso la ristrutturazione della vecchia cantina ottocentesca della ex-Enologica valtellinese (il nome fa riferimento alle volte della cantina che ospitava la seconda botte più grande d'Europa). Attraverso questi eventi il Centro, attrezzato con postazioni per degustazioni professionale e una sala convegni vive e non rischia di diventare una 'cattedrale nel deserto'.


Cadendo dopo pochi giorni dall'edizione-capolinea della Mostra del Bitto di Morbegno (ma quanto c'entra ancora il Bitto con quella roba lì?) il confronto è stato impetoso, anche perché a decretare la fine della Mostra di Morbegno - che ha un costo dell'ordine delle centinaia di migliaia di euro - sono stati gli stessi organizzatori (vedi articolo di Ruralpini) che si sono spregiudicatamente sfilati. Per gli enti, e che sfilza, che 'targano' la Mostra del Bitto: Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, Regione Lombardia, Provincia di Sondrio, Bim, Camera di Commercio, Comune e Comunità Montana di Morbegno dovrebbe essere motivo di riflessione.


Certi eventi e certi meccanismi istituzionali di promozione sono diventati carrozzoni, macchine che servono quasi solo a sé stesse, pretesti per fare avere un sacco di soldi agli enti del 'gusto istituzionale' (i consorzi delle dop e igp, i multiconsorzi, i distretti agroalimentari) e del turismo istituzionale nonché ai soggetti (ditte di servizi, società, professionisti, associazioni) che ruotano intorno a queste cerchie. Soldi che finiscono in 'giri' che portano agli stand vuoti con dentro le brochure, che finiscono in costosissime pubblicazioni patinate magari improvvisate nei contenuti che finiscono nelle cantine o che vengono distribuite 'a spaglio'. Qualcuno (tanti) ci mangia(no) su, è ovvio. La manifestazione di Sondrio ha dato di certo fastidio a certe 'cupole'. Non solo perché ha dimostrato che ci sono formule che evitano lo sperpero di denaro pubblico ma anche perché sono proprio le manifestazioni 'leggere' che servono ai piccoli produttori agricoli. I grandi eventi non solo ingoiano denaro pubblico per redistribuirlo secondo mai cessate prassi clientelari ma finiscono per essere inaccessibili (per via del costo degli stand) ai produttori artigianali, a coloro che producono in montagna, che mantengono con coraggio antiche tradizioni produttive.


A Sondrio nella piazza Garibaldi rbattezzata per l'occasione 'Piazza della resistenza casearia' c'erano dei veri resistenti. Non solo i ribelli per antonomasia (quelli del Bitto - foto sotto nello stand) ma anche diversi altri produttori che non è esagerato definire eroici.


A Sondrio nella piazza Garibaldi ribattezzata per l'occasione 'Piazza della resistenza casearia' c'erano dei veri resistenti. Non solo i ribelli per antonomasia (quelli del bitto - foto sotto nello stand) ma anche diversi produttori che non è esagerato defini eroici.

Non è facile resistere sugli alpeggi


Tra loro Marilena Giorgis e Aldo Macario che caricano l'alpe Vagliotta in valle Gesso (Cn). Non si arriva con la strada (solo con la moto da trial), delle tre stazioni sono una è stata riattata e le pecore devono fare un lungo cammino per recarsi sui pascoli alti e ridiscendere alla sera per essere chiuse in un recinto a prova di lupo. Nonostante queste fatiche i predatori a settembre hanno ucciso 8 pecore (due sono disperse) approfittando del fatto che i nostri amici pastori si sono lasciati cogliere nel rientro al 'campo base' dall'oscurità con le giornate più brevi. C'erano poi Silvia Fiore e Andrea Scagliotti, due giovani laureati con bambini piccoli che caricano l'alpe Pravaren in alta val Susa (a Venaus noto per la TAV). La strada da loro arriva sino alla casera ma i pascoli sono ripidi e accessibili sono con il cavallo e Andrea deve andare su e giù (l'ultimo pezzo portandosi il carico in spalla) perrifornire di cibo il pastore rumeno che sorveglia le pecore e i cani da guardiania. Anche qui il lupo picchia.

... ma se a resistere sono i giovani ci sono speranze


Il giovane Giacomo Ruiu (alpe di Blessagno in val d'Intevi, Co)(foto sopra) deve confrontarsi con altri selvatici non meno temibili: i cinghiali che gli devastano prati e pascoli. Non è facile resistere alla burocrazia, ai predatori, alla mancaznza di strade. A rendere la vita difficile ai pastori e alpeggiatori coi pensano anche i caseifici industriali. Ivan Albini, altro ragazzo presente tra i 'resistenti' a Sondrio viene da Germasino, paese sino all'anno scorso comune e ora fagogitato da Gravedona e Consiglio di Rumo per fare un 'comunone' come piacciono ai tecnocrati. Ivan all'alpe Nesdale (comune di Plesio) produce un ottimo grasso d'alpe con tanto di latte di capra (più Bitto di tanti bitti dop) ma deve confrontarsi con pascoli che hanno sofferto anni di abbandono. È sostenuto dal comune di Plesio che ha sistemato per bene i fabbricati ma ora  deve affrontare a casa, dove in inverno produce il formaggio magro locale (la Semüda),  la concorrenza del nuovo caseificio industriale Alto Lario, una succursale della Latteria di Delebio (la più grande della Valtellina  nonché protagonista e simbolo della Mostra del Bitto di Morbegno, un po' come il Bitto storico è stato protagonista e simbolo di quella di Sondrio).


Tra i resistenti della piazza c'era anche un personaggio piuttosto conosciuto: Desiderio Carraro dell'azienda Pian du Lares di Veddasca (Va). Desiderio è stato uno dei protagonistoi del recupero dei pascoli dell'alta val Veddasca e del rilancio delle produzioni casearie caprine varesotte iniziato con l'insediamento in una frazione abbandonata (Mulini di Piero) nei lontani anni '70. Carraro fa parte anche del gruppo dei 'Sovversivi del gusto' (per non smentirsi). A Sondrio domenica lo sostituiva la giovane figlia Martina. Una circostanza che ci fa capire come i piccoli produttori abbiano bisogno di soluzioni flessibili (la loro presenza non può protrarsi più di due giorni di solito) ma che conferma anche come nel campo della resistenza casearia ci siano parecchi giovani. Giovani erano anche i rappresentanti di alcuni presidi Slow Food quali quello del Mascalplin della val Bregaglia (canton Grigioni) e del Fatulì della val Saviore (Vallecamonica). Sia quelli del Mascalplin che quelli del Macagn (altro presidio Slow Food che 'resiste' contro il Maccagno industriale prodotto in pianura) alla domenica hanno venduto tutto e al lunedì sono partiti. Un altro fatto da tenere presente in queste manifestazioni: i piccoli produttori a volte hanno veramente quantità limitate. Non sono cose che ci raccontiamo per creare l'immagine delle micro-produzioni eroiche, è proprio vero.


Il panorama della piazza era completato dal presidio del grano saraceno (non un formaggio ma un emblema della valtellina rurale che vuole caratterizzarsi anche per la produzione di materie prime 'antiche' sostituite dalla importazione dal mercato globale. Tra i formaggi c'erano anche i principi delle Orobie che oltre ai presidei Slow food del Bitto storico, stracchino all'antica e Agrì di Valtorta comprendono anche il Formai de Mut dop, il Branzi FTB ('Branzi di Branzi' realizzato con latte di montagna e imitato da 'Branzi' prodotti in pianura con latte di varia origine), lo Strachitunt (in attesa di dop, contestata dai caseifici di pianura che vorrebbero che fosse estesa a tutta la provincia di Bergamo).

A Sondrio si consolida l'unione dei formaggi orobici

Nella foto sopra la panoramica dei formaggi bergamaschi presenti a Sondrio in nome della 'unione dei formaggi orobici'

A Sondrio si è presentata la squadra dei 'formaggi principi delle Orobie'. L'uscita ha consolidato una unione che ha già debuttato a Branzi alla Fiera di san Matteo e a Cheese. O Sondrio gli orobici non giocavano poi molto 'fuori casa' perché proprio di fronte a Sondrio si aprono le valli orobiche del Livrio e di Venina che conducono in val Brembana  attraverso passi per i quali una limitata produzione di Bitto (il grosso era concentrato nelle valli più occidentali) perveniva al mercato dei Branzi. In quest'ultima località per ricordare i vecchi fasti della Fiera di San Matteo e delle numerose casere che a settembre si riempivano di Bitto/Branzi (allora formaggi dalle tipologie sovrapponibili) è sorta l'associazione Fiera di San Matteo che è  stata anche la promotrice (con i ribelli del Bitto storico) dell'alleanza casearia orobica. Vere anime dell'associazione sono Francesco Maroni (caseificio di Branzi) e Ferdy Quarteroni. Ferdy, titolare dell'omonimo agriturismo, è il vulcanico ideatore di tante iniziative che rigiuardano gli alpeggi, i ragazzi e ... i quadrupedi. Suoi sono gli asinelli (tutte femmine dolcissime e pazientissime) che si sono fatti amare da centinaia di bimbi che hanno provato l'emozione di percorrere in groppa all'asino le vie e le piazze della manifestazione. Il servizio di asinovia è stato offerto dall'azienda Ferdy stessa.

Gli eventi collaterali

Formaggi in piazza è stata caratterizzata anche da altri eventi che non sono riuscito a documentare con foto ma che vale la pena manzionare: le dimostrazioni degli antichi mestieri dei Buiatei di Buglio, la dimostrazione di produziuone di  birra artigianale - 150 i litri consumati - dei Labadiena, un gruppo di quattro ragazzi valtellinesi che ha deciso di provare a produrre birra fatta in casa. E poi le degustazioni di Bitto storico e di formaggi ovicaprini d'alpeggio organizzate presso le Volte dal Consorzio salvaguardia Bitto storico edall'enoteca Tabernarium (gestita da due giovani in connessione con Le Volte stesse) . La degustazione di formaggi ovicaprini ha interessato i prodotti degli alpeggi citati: alpe Vagliotta (Cn), alpe Pravaren (To), malga Adamè (Bs), alpe Blessagno (Co), alpe Nesdale (Co) ed è stata guidata  per la parte casearia da Marco Imperiali maestro assaggiatore Onaf e da Gabriele de Luca per la parte birraia.


Unico neo la scarsa partecipazione ai convegni di domenica e lunedì in parte riscattata dal miglior successo di quello con Piero Sardo (foto sopra) di martedì (1° novembre) di cui abbiamo riferito a parte (vai all'articolo)

Dal Bitto storico al futuro dell'alimentazione (e dell'umanità): le riflessioni di Piero Sardo

(02.11.11) Ieri sera Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la biodiversità ha concluso con una conferenza  la tre giorni di "Formaggi in piazza". Che guarda già all'edizione 2010

A Sondrio Piero Sardo ha affrontato i grandi temi delle produzioni di piccola scala, nonché di origine e qualità specifica, all'interno del più ampio tema della sostenibilità del consumo alimentare. Partendo dal Bitto storico, emblema del cibo buono pulito e giusto. Lungi dall'alimentare contrapposizioni e polemiche Piero Sardo ha lasciato intendere sin dalle prime battute del suo intervento che l'indicare nel Bitto storico un emblema del cibo buono pulito e giusto non deve essere inteso come una svalutazione o una delegittimazione di altre produzioni. Di seguito la sintesi dell'intervento.
Chi produce l'altro Bitto lo fa nella maggior parte dei casi convinto di sostenere una bandiera della Valtellina, di esprimere attraverso questa produzione la storia e l'dentità del territorio. Ciò a cui si richiamano i produttori storici però è diverso.
Il Bitto storico come altri prodotti è legato ad un'origine e caratteristiche molto specifiche, a un luogo ben definito, molto concreto nella sua originalità. Una generica identità di un ampio territorio e una origine ben specifica e delimitata sono cose diverse, non sovrapponibili. Di fatto, però, le produzioni che provengono da questi luoghi e hanno conservato caratteristiche molto peculiari sono le più
fragili, le più deboli. Si tratta di realtà che hanno mantenute ferme scelta di produzione più difficili, che comportano volumi quantitativamente ridotti di prodotto e, inevitabilmente, richiedono ai fini di una remunerazione accettabile dei prezzi più elevati.


Nei decenni trascorsi pareva obbligata e auspicabile una scelta diversa. Si voleva a tutti I costi raggoiungere una massa critica, necessaria per accedere ai meccanismi della grande distribuzione: "Servono 20 mila forme".  Le produzioni di origine specifica, legate a territori molto circoscritti e con caratteri specifici non possono e non potranno mai raggiungere la "massa critica". Dedicando tutte le attenzioni alla massa critica però si è sacrificato molto, si sono sacrificati i luoghi di origine a favore di territori più ampi e meno svantaggiati. Questo fenomeno è avvenuto in tutto il mondo.  
Le esperienze maturate in molte realtà ci suggersicono però che qualcuna delle produzioni di origine specifica legate a territori corcoscritti può resistere se sussistono tre elementi. Il primo fattore in grado di aiutare la resistenza delle piccoole produzioni è rappresentato dalla capacità del consumatore di riconosce e apprezzare il prodotto quale espressione storica e culturale; se il territorio stesso non lo riconosce non c'è alcuna prospettiva. Vi è poi un'altra condiuzione criciale, un passaggio veramente complicato: l'innesco di meccanismi che inducano il consumatore  a spendere di più per prodotti che in ragione di quanto sopra richiamato sono caratterizzati da bassa produttività e quindi da prezzi più elevati rispetto ai prodotti di massa.


Oggi qualche prodotto di origine riesce a sopravvive perché la situazione cominicia a cambiare. A dimostrazione dell'esistenza di un trend positivo dei comportamenti del consumatore va citato l'aumento dei consumi dei prodotti dell'agricolatura biologica, un aumento che lo scorso anno nonostante la crisi ha toccato il 16%. Indipendentemente dalle valutazioni sulla validità dell'agricooltura bio (che comunqe secondo comporta un minor uso di pesticidi e concimi chimici) lo spostamento dei consumatori verso il biologico, in piena crisi economica, evidenzia un cambiamento psicologico in atto. In precedenza erano solo solo alcuni illlusi, sognatori, che si rivolgevano ai prodotti bio. Oggi la penetrazione del prodotto bio è generalizzatà, indice di una diversa disponibilità a pagare di più per certi prodotti.
Resta il fatto che non è facile educare il consumatore ad acquistare prodotti più costosi che, oltretutto si caratterizzano anche per un gusto caratterizzato, a volte aggressivo. Un indice della diseducazione alimentare è riscontrabile nella tendenza dei consumatori a non rifiutare gli alimenti contenenti olio di palma. Un olio che è quasi interamente costituito da grassi saturi (in misura molto superiore al burro ingiustamente criminalizzato) e responsabile della deforestazione di ampie aree del mondo. Purtroppo si fa poca educazione nutrizionale e ancor meno educazione alimentare.  Di conseguenza i consumatori non si pongono interrogativi quali: "come è possibile produrre tutto l'anno", "come è possibile trovare prodotti come le carni a metà prezzo". Lo stresso mantenimento di elevati consumi di carne, anche a livelli nocivi per la salute conferma che siamo lontanissimi dalla diffusione di una sana educazione alimentare.


Per salvare le piccole produzione il consumatore dovrebbe avere più informazioni ma se l'educazione alimentare (scolastica e non) è carente, ancora di più lo è quella veicolata dall'industria stessa attraverso le etichette dei prodotti.  Le etichette non ci raccontano nulla e per queso la filiera corta  è tanto utile e auspicabile. Chi se non un operatore entro una filiera corta può raccontare come è stato ottenuto un prodotto?  Non certo il banconista del supermercato che non sa spesso indicare quale di due formaggi è quello più stagionato. Invece sarebbe indispensabile per orientare le scelte sapere se il produttore ha usato fermenti industriali, se ha usato la carne congelata, quanto ha stagionato il  formaggio. Latte caglio e sale recitano - per legge - le etichette e niente di più. Ma che caglio si è usato? Animale, microbico, vegetale, transgenico?
Il consumatore ha estremo bisogno di informazioni sul "pulito" (al buono ci arriva da solo: "se non mi piace non lo compro più"). Ma  con la bocca a certe informazioni non ci arrivo Hai usato pesticidi? Bisogna pretendere di più, di avere più informazoni che ci consentano di scegliere.
Vi è però un altro punto cruciale anzi decisivo: gli uomini. L'esempio del Bitto è importante proprio per questo. Qui abbiamo a che fare con personaggi che hanno rifiutato le regole del prodotto industriale. Senza questo atteggiamento di resistenza, un po' cocciuto un po' inspiegabile in una società del consumo che cerca solo di ottenere i soldi in fretta è difficile spiegare perché si resta attaccati ad un lavoro più scomodo, più faticoso, più lente Ora questo lavoro è più remunerato di qualche anno fa ma quella dei produttori del Bitto storico resta una scelta poco moderna determinata da un fattore umano di fedeltà al luogo di origine. Per fortuna ci sono anche altri esempi. Noi di Slow Food li chiamiamo "presidi" ma, per fortuna,  ci sono altre forme di resistenza al di là di Slow Food che rimane comunque una realtà piuttosto piccola.


Grazie allo sforzo dei suoi sostenitori il Bitto storico è ben pagato. Troppo? Va detto che non è obbligatorio comprare cibi costosi ma che prezzi elevati sono indispensabili per remunerare i produttori. Il Bitto, in ogni caso, lo si vende e questo è un passo avanti straordinario rispetto ai formaggi italiani. Il Bitto storico non è un alimento di base, non è un cibo quotidiano. Qualcuno però si chiede: "se tutti dovessero vivere mangiando culatello e Bitto storico mangeremmo tutti?"  Intanto va ricordato che noi, solo in Italia, buttiamo via milioni di tonnellate di cibo nella spazzatura. Il consumo è una macchina mostruosa. Ridando voce alle comunità locali. al cibo locale si possono recuperare molto sprechi. Inoltre non si deve dimenticare che, al di là del cibo che va nella spazzatura è possibile ridurre molto i consumi  oggi eccessivi. Non diciamo comunque che l'industria non deve avere alcuno spazio. Essa, però deve dimostrare di operare con coscienza e rispettando la fertilità, il benessere animale, l'equità sociale. Se consideriamo questi aspetto l'agricoltura industriale non può avere futuro e l'unica alternativa è l'agricoltura a piccola scale.

All'esposizione è seguito un breve ma intenso dibattito alimentato da alcune domande cruciali da parte del pubblico. Le notizie della giornata, relative all'aggraversi della crisi finanziaria aleggiavano su questo dibattito inducendo alcuni a considerazioni pessimistiche. La tentazione a considerare il tema del cibo "buono, pulito e giusto" quale aspirazione utopistica, edonistica ed elitaria traspariva da alcune domande poste a Piero Sardo motivate da sincera preoccupazione ma espressione della non ancora diffusa consapevolazza dei termini fondamentali della sostenibilità alimentare. Le risposte fornite da Piero Sardo hanno consentito di chiarire che l'agricoltura industriale si regge su un tragico inganno: noi paghiamo poco, troppo poco il cibo nella grande distribuzione ma paghiamo poi molto cari gli impatti negativi dei sistemi agricoli e zootecnici che hanno fornito all'industria alimentare le materie prime. Lo paghiamo già direttamente o indirettamente (attraverso la spesa pubblica) per le conseguenze dell'inquinamento delle acque, dell'aria, del terreno. Lo pagheremo sempre più in futuro (noi e le generazioni a venire) attraverso le conseguenze della perdita di fertilità, biodiversità, risorse non rinnovabili (compresa l'acqua). Sardo ha citato a questo proposito l'aforisma dell'economiata Kennet E. Boulding: "chiunque creda che una crescita esponenziale possa continuare per sempre in un mondo finito o è un pazzo o un economista".





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