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sabato 25 febbraio 2017

Il gran formaggio d'alpe orobico (per una storia a tutto tondo)


Il gran formaggio d'alpe orobico (per una storia a tutto tondo)

di Michele Corti

(21.02.17) Riflettendo su una storia di differenziazioni e perimetrazioni più o meno artificiose, sovrapposizioni, scambi di identità, emerge l'esigenza di una riconsiderazione complessiva di una vicenda casearia che ha spinto a concentrare l'attenzione (spesso conflittuale) sulle denominazioni: "branzi", "bitto", "formai de mut" (ma si potrebbero aggiungere anche i cru monoalpeggio, di cui il "camisolo" è stato precursore). Così, però, si è offuscato il valore d'insieme di una grande tradizione casearia. Essa oggi può essere interpetata in vario modo: se si tiene ferma l'importanza dell'aggiunta del latte di capra ( storicamente importante in passato su tutta l'area) e la ricerca dell'attitudine alle lunghe stagionature si ammirerà e premierà l'eroica tenacia dello "storico ribelle". Laddove, da oltre un secolo la tradizione di caseificazione d'alpe ha dovuto fare a meno dell'aggiunta del latte di capra (come in buona parte degli alpeggi della val Brembana, a seguito della proscrizione delle capre) l'espressione della produzione locale si incarna onestamente nel "formai de mut". 



Figura 1 - Consistenza del patrimonio caprino in alta Valbrembana tra Otto e Novecento

Il formai de mut  ha rinunciato con sana umiltà a proporsi a vertici di qualità raggiunti a suo tempo dal "vecchio bitto/branzi" (che erano la stessa cosa); si è limitato a fissare un minimo di stagionatura di 45 giorni (bitto dop minimo 70), ma anche una temperatura di cottura di 45-47°C (bitto 48-52°C) che preclude la lunga stagionatura. Ha anche rinunciato alla "veste tradizionale", ovvero allo scalzo concavo e ha puntato su pezzature più ridotte (bitto 8-25 kg, formai de mut max 12 kg). Nelle regole del formai de mut emerge una volontà di autolimitazione che segna la rottura con la tradizione, una rottura sofferta e obbligata. La tradizione non impediva di cuocere sino a 50°C, di produrre forme di 20-25 kg. Ol formài dè mut era prodotto anche nell'alta Valseriana, tanto è vero che ilformai de mut si chiama ufficialmente (e molto farraginosamente (formai de mut dell'alta Valbrembana dop). Quello seriano era prodotto nello stesso modo di quello dell'alta Valbrembana (il perché è chiaro: era fatto per lo più dai bergamini anche in alta Valseriana).
L'ardesiano Guido Fornoni (La casa rurale, Comune di Ardesio, 1998?, p. 31) ci informa che il formài dè mut era prodotto cuocendo la cagliata a 45-50°C. Un range realistico con la "vera" pratica tradizionale, che adattava a circostanze di mercato e a contingenze delle condizioni di produzione i parametri tecnologici. L'assurda pretesa di produrre formaggi "tradizionali" imponendo parametri "stretti" è diretta derivazione dell'applicazione poco sensata di una mentalità anelastica, formatasi nelle condizioni controllate della produzione industriale. L'artigiano mantiene la (relativa) costanza di caratteristiche del suo prodotto variando anche di molto i parametri di lavorazione. Tenere fissi i parametri in condizioni d'alpeggio significa ottenere prodotti molto variabili (allora si usano i fermenti industriali e si deraglia). 


Lo scalzo concavo: l'apparenza inganna?

Lo scalzo concavo è elemento di identità di alcuni formaggi grassi d'alpe alpini. Il branzi quando ha mutato pelle, divenendo invernale e semigrasso, ha mantenuto forma e scalzo. Operazione perfettamente comprensibile, finalizzata a mantenere un mercato "dell'orgoglio bergamasco". A volte ci si accontenta della forma e di una bandiera stinta, ma - si sa - nel formaggio la forma è spesso sostanza. Lo hanno fatto anche il beaufort e l'abondance, nati, come tutti i formaggi grassi di montagna, in alpeggio e parecchio industrializzati nei decenni recenti. Le forme perfettamente uguali, con gli spigoli vivi e di uguale pezzatura sono quelle dei grandi caseifici cooperativi (sotto il beaufort). Nelle condizioni di alpeggio a volte si deve decisere su fare due forme piccole o una grossa perché il latte è quello che è. Spesso sufficiente a fare una forma al mattino e una, un po' più piccola, la sera o due al mattino e una alla sera (in questo caso un po' più grossa di quelle del mattino. Dove non si lavorano 2-3 quintali ma centinaia di quintali, e tutte le fasi sono meccanizzate, le forme sono tutte perfettamente calibrate.  Il beaufort è comunque un ottimo formaggio ed è rimasta anche una produzione dl'alpeggio. Peccato che al nostro gusto "viziato" dai prodotti ribelli, allettato dalla "selvaticità" del vero bitto, esso - come altri formaggi savoiardo-svizzeri - ci ricordi sempre e un po' ossessivamente il gruyere.






Fig. 1 - Mappa dei formaggi a scalzo concavo. Sono tutti alpini, d'alpeggio e grassi (a latte intero). Il bitto/branzi è un esempio isolato dalla "famiglia" dei formaggi savoiardi (abondance e beaufort). Anche la fontina ha uno scalzo subconcavo (almeno spesso). 

Un segno di identità antico

L'area orobica può vantare una documentazione dello scalzo concavo del XV secolo (scusate se è poco
 meussieurs). Si tratta (l'ho già fatta vedere diverse volte della rappresentazione di un formaggio nelle "nozze di Cana" dell'Oratorio dei disciplini di Clusone. Perché lo scalzo concavo? Forse perché quando è duro (dopo l'anno di sicuro) il formaggio può essere conservato appoggiato sullo scalzo (non serve più girare le facce piatte perché non perde quasi più umidità). Forse perché è facile legare intorno una corda alle forme e appenderle (serviva a caricare facilmente i muli). 



Il "bitto dop", che alla sostanza della tradizione non è interessato (vai con i mangimi e i fermenti e chissenefrega se non c'è latte di capra), nel disciplinare precisa la caratteristica di "spigoli vivi" dello scalzo. Un risultato ottenibile con le fascere di plastica (che non si deformano, non si "piallano" con l'uso, non si degradano se non in migliaia di anni). Per fortuna che, causa l'umidità eccessiva all'interfaccia tra la fascera e la cagliata, molti stanno tornando indietro al legno che "sa" regolare l'eccesso di umidità della pasta di formaggio al suo contatto.   Per mantenere un "bello scalzo concavo" e dagli "spigoli vivi" il casaro deve rinnovare il parco fascere e utilizzare come combustibile le vecchie (di legno, ovviamente). Ma per sparagnare i casari le cambiano poco (la "sana economia contadina" non è applicata sempre a proposito ma, come è noto, si spendono follie per le trattrici, e si fa "economia" sulle fascere). Così tante volte si vedono "storici ribelli" (ex bitto storico) con lo scalzo diritto, che non è proprio bello da vedere (ma sempre meglio della diffusione della plastica). Meglio la sostanza o la forma? La sostanza. Senza dimenticare, ripeto, che nel formaggio la forma è anche sostanza.

L'apprezzabile modestia del formai de mut

Dopo tutta questa disgressione non si può fare a meno di dare ragione alformai de mut che per distinguersi dal branzi (e dal bitto) ha rinunciato ad una caratteristica molto particolare e interessante del gran formaggio d'alpe delle Orobie occidentali.  Il formai non pretende di eguagliare quella che è stata la gloria del vecchio bitto o del vecchio branzi, dichiara di essere una "versione più modesta" tanto che ammette l'uso del latte di due mungiture (quindi acidificato) laddove la grande qualità del bitto della tradizione è legata alla lavorazione due volte il giorno a munta calda. Significativo che nell'ambito del formai de mut si sia distinto, grazie al maestro casaro Abramo Milesi (peraltro fondatore e vicepresidente del Consorzio tutela del formai de mut), il camisolo. Prodotto solo nell'omonima alte il camisolo spuntava prezzi notevolmente superiori alformai de mut diventando, di fatto un formaggio a sé.
Il formai de mut è frutto di una regressione, di un depotenziamento del sistema alpicolturale altobrembano legato, come ho avuto modo di spiegare in altre occasioni, alla fissazione in pianura dei bergamini che, sino alla prima guerra mondiale, monopolizzavano gli alpeggi dell'alta val Brembana. Con meno vacche e meno esperienza di caseificazione commerciale i piccoli allevatori stanziali (i "casalini") impiegarono decenni a prendere il posto dei bergamini nonostente i tecnocrati, cui i bergamini stavano antipatici (perché non se li filavano) facessero di tutto per l'educazione tecnica paternalistica dei "villici". I casalini non riuscirono mai riempire il vuoto lascato dai bergamì e  parecchi alpeggi furono caricati da valtellinesi, che nel frattempo seppero "allargarsi" oltre il displuvio. Nel frattempo il vecchio branzi diventava un formaggio invernale semigrasso. Lo stesso formai de mut, di fronte all'esiguità della produzione si è ben presto ridotto ad ammettere la versione "invernale" con la distinzione tra etichetta blu (alpeggio) e etichetta rossa (invernale). Peraltro il molto discutibile disciplinare del 1985 lo ammetteva, consentendo anche l'insilato di mais nell'alimentazione delle vaccine (sarebbe da rivedere, no?).
Se il formai de mut è il frutto dell'impossibilità di perpetuare nelle nuove condizione dell'era post-bergamina le glorie del passato, dichiarandosi onestamente "diverso" dal gran formaggio d'alpe delle Orobie, il "bitto dop" è l'esito furbastro di una forzatura che ha "disaccoppiato" una tradizione secolare dalla sua matrice culturale e geografica.
Se in val Brembana le capre erano state perseguitate, crollando a poca cosa a fine Ottocento, non fu 
così in Valtellina dove il bitto continuò ad essere prodotto con il latte di capra (con l'eccezione di alcuni alpeggi di Albaredo a seguito di rimboschimenti e divieti che - nel periodo tra le due guerre - costrinsero a tenere le capre presso i maggenghi. Ma in Valtellina (la parte orobica, ovviamente, dove si faceva bitto) le capre vennero riammesse appena possibile in alpeggio. La possibilità di fare bitto dop senza latte di capra, prevista dal disciplinare nel 1995, era propedeutica all'estensione pansondriese del bitto dal passo dello Spluga al Gavia e a Livigno seconda un'operazione dettata dai saccenti guru del marketing del tempo che credevano che una produzione di alta qualità legata (almeno nominalmente) alla tradizione potesse avvantaggiarsi di "masse critiche" di mercato allo stesso modo di un prodotto seriale industriale.

Pendolarismi transorobici e denominazioni "pendolari"

Più approfondisco la storia del Gran formaggio d'alpe delle Orobie e più mi rendo conto che la matrice è unica e che le diverse denominazioni, i "ritocchi" ai parametri di produzione per "differenziarsi", le "perimetrazioni" ecc. sono tutti fattori che hanno immiserito una grande storia. La cosa più misera è consistita nel tracciare una linea di demarcazione artificiale tra i due versanti brembano e valtellinese delle Orobie.
Quando le Orobie erano divise tra tre stati sovrani (allora erano sovrani sul serio) c'era una circolazione di capitali, di competenze, di prodotti, di idee tra i versanti.  Oggi ce la sognamo. Che si trattasse di industria mineraria e di lavorazione del ferro o di formaggio i confini erano porosi, le famiglie operavano con rami di qui e di là.






Ma quale "bitto valtellinese", non c'entra un fico con la valtellinesità il bitto

La storia dei bergamini la dice lunga sul "bitto valtellinese". Natale Arioli ha dato nel 2016 alle stampe, per ora in edizione privata, un volume ("Oltre i ricordi, alla ricerca delle radici") che ricostruisce la dinastia di bergamini cui appartiene. Una dinastia che, con vari rami altobrembani (Piazzatorre, Mezzoldo), si era diffusa alla Bassa, non senza intrecciarsi con dinastie bergamine delle altre convalli brembane, della val Taleggio, della Valsassina, dell'alta Valseriana. In questo volume, più sistematicamente rispetto a scritti precedenti, emerge la secolare frequentazione degli Arioli degli alpeggi della Valgerola (presi in affitto). Bomino, Dosso cavallo, Pescegallo sono stati, tra XVI e XVIII secolo, caricati in modo continuativo dagli Arioli. E parliamo solo di una dinastia! Sappiamo che anche un altro grande alpeggio gerolese (Trona) è stato caricato per secoli da bergamaschi e valsassinesi (tutti bergamini). Se il cuore della produzione del bitto, la Valgerola era caricato da bergamini brembani e valsassinesi con quale facciatosta si può asserire che il bitto è un formaggio valtellinese? Se poi consideriamo che le famiglie della val Gerola e della val Tartano erano legate alla Valsassina e alla Valbrembana il quadro è sufficiente per concludere che il bitto è al 100% orobico, e se si vuole precisare e diventare un po' cattivi, allora dobbiamo aggiungere che è nato in Valsassina e Valbrembana.
Nei documenti citati da Arioli emerge anche che altri alpeggi orobici valtellinesi erano caricati da bergamini brembani oltre a quelli del comune di Gerola.
Il nome bitto, però, ha avuto successo anche se, per secoli, la stragrande maggioranza del Gran formaggio d'alpe delle Orobie era venduto fuori dalla Valtellina e chiamato diversamente. La via del bitto lo portava direttamente dagli alpeggi in Valsassina e a Lecco, la Priula a Mezzoldo e a Bergamo. Il formaggio di monte (o formaggio grasso) come era chiamatodopo l'affermazione a fine Settecento  della Fiera di san Matteo ai Branzi, divenne il "formaggio dei Branzi" e tale fu nell'Ottocento.
All'inizio del Novecento a Morbegno vi fu un fervore di iniziative: la Mostra casearia provinciale, (che non si chiamava "Mostra del bitto"), la realizzazione della casera sociale dei caricatori d'alpe. Iniziative che spostarono gradualmente da Branzi a Morbegno il baricentro. Quando Arrigo Serpieri, illustre economista agrario, si dedicò per la Società agraria di Lombardia all'indagine sistematica sui pascoli alpini, registrava ancora, parlando degli alpeggi delle Orobie valtellinesi (Società agraria di Lombardia, 1904) che la maggior parte della produzione di bitto era esitata ai Branzi. Ma nel 1907, quando uscì l'indagine sugli alpeggi bergamaschi, Morbegno era in fase effervescente e il Serpieri, che pure sapeva che ai Branzi si vendeva il branzi, chiamò "formaggio grasso tipo bitto" quello degli alpeggi altobrembani (riservando curiosamente la denominazione "branzi" a quello degli alpeggi delle convalli più orientali (di Carona e Roncobello). Si veda la Tab. 1 (che ho già presentato più volte).


Tabella 1 - Alpeggi dell'alta val Brembana all'inizio de XX secolo (da: Soc. agraria di Lombardia,I pascoli alpini della provincia di Bergamo, 1907)
Nome alpeggioComunePagheProdotto
PonteranicaS. Brigida60Formaggio grasso tipo Bitto
Parissolo*S. Brigida60idem
AvaroCusio173idem
Foppa*Cusio100idem
ColleAverara100idem
Ancogno*Averara e Mezzoldo180idem
GambettaAverara e Mezzoldo80idem
CantedoldoAverara e Mezzoldo90idem
Azzarino/Fioraro/M.te NuovoMezzoldo172idem
Azzarino/CalvettiMezzoldo90idem
Cavizzola*Mezzoldo82idem
SiltriMezzoldo58idem
TerzeraMezzoldo107idem
CavalloPiazza Torre97idem
Monte SeccoPiazza45idem
Torcola vagaPiazza118idem
Torcola solivaPiazza94idem
ToragelloMojo de’Calvi58idem
ToracchioMojo de’Calvi80idem
Arale V. con ScessiValleve300idem
SalineValleve70idem
AreteFoppolo100idem
CarisoleCarona e Foppolo700Branzi
SassoCarona191idem
ArmentagraCarona118idem
MersaCarona72idem
FoppeCarona66idem
SardignanaCarona55idem
Lago GemelloBranzi173idem
Valle OscuraBranzi80idem
Monte ColleBranzi133idem
MezzenaRoncobello197idem
GrumelloRoncobello45idem
ValliS. Brigida37Burro e formaggio magro
VagoValleve30?
FontaniniValleve60Stracchino
PiazzoliFoppolo35?
RoveraFoppolo28?
CadelliFoppolo20?
DordonaFoppolo18?
Val SambuzzaCarona133Formaggini freschi
AcquabiancaCarona105Stracchini di Gorgonzola
FoppoboneCarona33?
ZoppoBordogna30?

Da quanto detto si ricava: 1) che al tempo in cui il bitto consacrava la sua fama (secoli XVI-XVII) a produrre bitto erano per lo più bergamini brembani (compresi quelli di Tartano che era un'appendice brembana a nord del displuvio); 2) che il nostro formaggio nell'Ottocento era venduto per lo più a Lecco e a Branzi (qui con il nome di branzi); che all'inizio del Novecento osservatori autorevoli definivano "tipo bitto" il formaggio prodotto nella maggior parte degli alpeggi brembaniNon è finita. Come ho già ricordato in più occasioni che il branzi (anche quello prodotto sugli alpeggi di Gerola, considerata il cuore del bitto) era colorato con lo zafferano e cotto a temperature elevate (48-52°C) mentre il "bitto", ovvero quello esitato sulla piazza di Morbegno, era senza zafferano e cotto a 45-47°C. Il "bitto" era assimilato al bettelmat(formaggio morbido da consumare entro la primavera successiva), il "branzi", allo sbrinz (formaggio duro da grattugia). In realtà i bergamaschi consumavano "branzi" molto stagionato da grattugia. Oggi il bitto "valtellinese" dop si cuoce a 48-52°C, a 45-47°C il formai de mut"bergamasco". Per secoli i "bergamaschi" hanno caricato gli alpeggi delle Orobie valtellnesi, oggi parecchi alpeggi altobrembani sono caricati da valtellinesi. Di fronte a tutti questi sistematici veri e propri scambi di identità e di ruoli chi ha il coraggio di sostenere che bitto e branzi non fossero (almeno prima che il branzi diventasse un formaggio inverbale semigrasso) la stessa cosa? Quanto al formai de mut si è abbondantemente chiarito che sorge da quel ceppo come "adattamento a una situazione di depotenziamento".

Una sovrapposizione solo declinata al passato?

I soliti scettici diranno: "si ma tu ti riferisci a cose di un secolo minimo fa, figuriamoci poi cosa interessa a noi dei secoli precedenti". Potrei rispondere: "siete zotici, perché la profondità storica è quella che oggi fornisce vantaggi comparati sul mercato globalizzato". Ma senza polemizzare oltre veniamo a circostanze di pochi decenni fa e persino di oggi. Così accontentiamo anche gli zotici. Prego quindi leggere la Tab. 2 che si riferisce al momento d'oro del Formai de mut. Ottenuta la dop, il cav. Pierangelo Apeddu (morto nel 2014 senza che nessuno se ne ricordasse, ma su questo oblio torneremo presto) si diede molto da fare per convincere tutti o quasi i caricatori dell'alta val Brembana a sottoscrivere (almeno sulla carta) l'adesione al Consorzio di tutela. Così vediamo che anche i valtellinesi (i Colli, i Fognini, i Marioli, i Gusmeroli, i Duca, i Fallati) aderirono al formai de mut.
 Però continuarono a fare "tipo bitto" visto che non avevano le capre. Per il formai de mut quello era un pregio, perché così di demarcava dal bitto, che allora era ancora considerato tale solo con l'aggiunta di latte di capra. In ogni caso, anche senza dop, anche senza latte di capra, il bitto o "tipo bitto" continuava ad essere molto più rinomato (e pagato) del formai de mut (secoli di fama non si bilanciano con un riconoscimento burocratico). 

Tab. 2 -  da Consorzio tutela Formai de mut. Alta val Brembana, un palmo di terra. Una valle, una storia, "Il Formai de mut" , 1988






La famiglia Duca all'alpe di Ancogno soliva, ritratta come "produttrice di Formai de mut" nel libro celebrativo del 1988.


Una foto tratta dal libro del formai de mut che mostra come lo scalzo restava concavo. Chi faceva bitto continuò a fare bitto. Non buttavano certo via le fassere per far piacere ad Apeddu. Così il libro testimonia dell'ambiguità di questo formai del mut che era bitto (sotto la fascera con la nervatura centrale che imprime la concavità).


I caricatori d'alpe, convinti da Apeddu a entrare nel formai de mut, lo fecero aspettando gli eventi (furbizia contadina). La dop rappresentava un prestigioso traguardo ma non poteva scalzare il prestigio del bitto, specie perché il formai de mut si presentava, per sua scelta, come il "fratello povero" del bitto (lo abbiamo già spiegato: temperatura, pezzatura, durata minima di stagionatura. Così quando la Valtellina passò alla riscossa, con ritardo di 10 anni rispetto al formai de mut che aveva avuto dalla sua il ministro Pandolfi e  l'assessore regionale all'agricoltura Ruffini, Apeddu perse i produttori valtellinesi, che poterono fare legalmente bitto dop anche in Valbrembana (sono sette i comuni riconosciuto "da bitto" dal dsciplinare del bitto dop).
Ma la storia dei formaggi camaleonte, della battaglia della territorializzazione becera (anche andando contro la storia), del "sono più forte io", non cessò. Grazie a quei "fessi" dei ribelli, che tenevano eroicamente alta un'immagine di calecc', di capre orobiche, di sacrifici (nel mentre venivano presi allegramente per il culo dal Consorzio del bitto e casera e dalla Latterie di Delebio ecc.), il bitto mantenne il suo prestigio.  Il differenziale di prezzo tra bitto e formai de mut fece convertire al bitto (cioè alle palanchine) anche dei bergamaschissimi produttori gogis. Anzi, qualcuno (ed è una vera barzelletta che la dice lunga sulla serietà delle dop), tiene opportunisticamente il piede in due scarpe. Lo stesso alpeggio fa entrambe le dop.  Non lo possono fare i ribelli del bitto, i talebani della capra orobica, perché se hai le capre (e per fare l'ex bitto storico, ora storico ribelle, è obbligatorio) non puoi fareformai de mut.  Cosa distingue formai de mut e bitto dop? Il prezzo e, al massimo la furbizia di usare la fascera da scalzo concavo quando fai (dici di fare) bitto.
 


Tabella 3 - Produzione per alpeggio (anno 2015, fonte: consorzi)
AlpeComuneprodotto 1prodotto 2
CaseraCusioBitto dop
FoppeCusioBitto storico
ParissoloSanta BrigidaBitto storico
CulAveraraBitto dop
CantedoldoAveraraFormai de mut
Ancogno solivoMezzoldoBitto storico
CazizzolaMezzoldoBitto storico
MorettiFoppoloBitto dop
III BaitaFoppoloBitto dop
RoveraFoppoloBitto dopFormai de mut
SessiValleveBitto dopFormai de mut
AraleValleveBitto dopFormai de mut
Carisole CaronaBitto dopFormai de mut
Cosa mersaCaronaFormai de mut
TorracchioValnegraFormai de mut
Torcola solivaPiazzatorreFormai de mut





mercoledì 12 novembre 2014

Torma la Bruna alpina. Merito anche del Bitto storico

Torna la Bruna ma i tecnocrati anticontadini responsabili della sua 'estinzione forzata' la chiamano "Linea carne" per difendere le loro scelte sciagurate 



Vacca OB di Alfio Sassella, un 'ribelle del bitto' che carica l'Alpe Cavisciöla a Mezzoldo in alta val Brembana

La buona notizia è che è stato attivato il Registro anagrafico della Bruna originale Original Braunvieh. Il merito è anche degli allevatori che caricano gli alpeggi del Bitto storico, i primi a reintrodurre la Bruna originale dileggiati sino a pochi anni come trogloditi ("volete disperdere decenni di selezione") dai tecnici dell'Apa (Associazione provinciale allevatori) di Sondrio. Da tempo inoltre il Consorzio per la salvaguardia del Bitto storico sta penando di vincolare alla razza OB Bruna alpina originale, la produzione del formaggio. La stessa Apa  ora si inventa con finanziamenti della Regione una fantomatica "Bruna valtellinese" (destinata a fare la vacca nutrice, ovvero a non essere munta). E' sempre la Bruna "Linea carne" inventata dall'Aia (Associazione italiana allevatori) e dall'Anarb (Associazione razza Bruna), chiamata così per nascondere che la Bruna originale è una ottima razza a duplice attitudine 'madre' di tanti formaggi lombardi e svizzeri.

Una denominazione inaccettabile quella dei tecnocrati dell'Aia e dell'Anarb e insultante per gli allevatori.  Ferdy Quarteroni (grande amico del Bitto storico e 'inventore' dei Principi delle Orobie con Paolo Ciapparelli  e Francesco Maroni) nel suo agriturismo di Lenna e all'Alpe Inferno di Ornica sta da tempo anch'egli 'collaudando' le Brune originali e non ci sta a vederle insultate come "Linea carne". Lo ha detto chiaro e tondo all'assessore regionale Fava che è andato a trovarlo nel suo agriturismo.

I tecnoburocrati delle Associazioni di razza  sono  i responsabili (insieme alle Associazioni provinciali allevatori e alla Regione) dell'estinzione della Bruna alpina di cui hanno disperso il patrimonio frutto di secoli di selezione in Valtellina, Valsassina e valli bergamasche. L'hanno sostituita al 100%. Hanno imposto la Brown Swiss (l'Anarb è una specie di monarchia ereditaria dove le decisioni partono dall'alto) anche in aziende dove non vi erano le condizioni per allevare una vacca 'spinta': la Brown Swiss made in Usa. Una sostituzione che in montagna è stata anticamera dell'abbandono degli alpeggi, della chiusura dei piccoli allevamenti che si basavano sulla produzione di foraggi aziendali e sul pascolo e traevano un reddito non trascurabile dalla carne (il vitello Brown non vale nulla). 

Ovviamente ha guadagnato il 'giro' (quello che vede l'intreccio tra associazioni tecniche, sindacati agricoli, politica, cooperative).  Ci ha guadagnato chi traffica in fiale di seme di toro, mangimi, farmaci, integratori (e intrugli più o meno leciti), chi voleva la pulizia etnica delle piccole aziende per imporre anche in montagna il modello agroindustrialista (poche aziende, molto produttive, tutte dedite a mungere a manetta, a vendere il latte per  quattro centesimi e a comprare quantità industriali di mangimi). Per attirare gli allevatori nella trappola li facevano sentire 'moderni' e 'imprenditori'. In realtà gli consentivano di tenersi in piedi appena allargando sempre la stalla. I profitti li facevano solo gli allevatori più grossi e altri soggetti.

Alla fine quando gli allevatori hanno capito che la Brown Swiss non era più adatta all'economia delle loro aziende l'hanno mollata. Ma dovendosi arrangiare (dove sono state le istituzioni?) hanno dovuto 'sperimentare' tra razze varie e incroci (portando in Lombardia la Pezzata Rossa ma anche la Grigia alpina, la Pinzgauer e altre razze minori variamente mescolate tra loro, con la P.R., con la Brown swiss, con la Frisona. Un... casino di cui vanno ringrazieti gli enti suddetti. La scomparsa della Bruna alpina ha danneggiato l'agricoltura di montagna, la montagna, la qualità del latte (le vacche 'spinte' si ammalano più facilmente anche di mastiti), la tanto invocata a sproposito (da coloro che la calpestano) sostenibilità. La Brown swiss importata dagli Usa è un incrocio attuato negli States a fine Ottocento tra Bruna alpina di origine svizzera e varie razze da latte. E' un 'derivato' dalla Bruna alpina, cioè un'altra razza. Di fatto oggi, dopo l'accanita selezione (in Italia si è seguito l'indirizzo 'spinto' Usa a differenza di Bolzano, Austria, Germania) la Bruna italiana è una Frisona con un colore solo pallidamente bruno.

Qui la storia della "BRUNA NON PIU' ALPINA' (scarica)


fonte: http://news.valbrembanaweb.com/index.php/dalla-val-brembana-parte-la-rivincita-della-bruna-alpina/

Dalla Valbrembana parte la rivincita della Bruna alpina



(12.11.14) Valle Brembana – La vacca Bruna alpina tornerà regina delle nostre montagne? Per ora è soprattutto un auspicio ma si sono messe le basi: con i primi capi che stanno per essere riconosciuti ufficialmente dall’Associazione provinciale allevatori in un registro anagrafico. Premessa: fino ancora a venti anni fa circa, nella nostra provincia, in montagna e in pianura, gli allevamenti bovini erano di Bruna alpina, ovvero la razza originaria, nata in Svizzera, con il latte della quale per decenni e oltre, si sono prodotti i formaggi orobici diventati poi famosi nel mondo, dal Taleggio al Formai de mut, dal Bitto al Branzi. Ma già dal 1940, in Italia, e quindi anche da noi, venne introdotta la Brown Swiss, un incrocio americano della Bruna alpina, con un’attitudine più lattifera rispetto all’originale. In sostanza produceva più latte e, perciò, in nome del commercio e del profitto, la Bruna alpina originale, più rustica e adattabile all’alpeggio, ma meno lattifera, venne «insanguata» con la razza oltreoceano.
«Più rustica e adatta all’alpeggio»
«Prima degli inserimenti americani – spiega Giulio Campana, funzionario zootecnico della Provincia di Bergamo – anche da noi esisteva il ceppo originale di Bruna alpina, rimasto ora, (con un numero di capi limitati, ndr) solo in Svizzera, Austria e Alto Adige. Se l’Alpina aveva una duplice attitudine, per latte e carne, quella oggi diffusa ovunque, ovvero la Bruna derivata dall’incrocio americano, è prevalentemente per latte, ma è anche meno resistente, meno adatta alla montagna e, sugli alpeggi, non è sufficiente che si alimenti di erba, ha bisogno di un’integrazione alimentare di cereali». La razza antica star su Canale 5 Così, negli ultimi vent’anni, anche nelle nostre valli, la tradizionale vacca alpina è stata sostituita, oltre che dall’incrocio con la Brown Swiss (col semplice nome di Bruna), anche da Pezzate rosse friulane e Frisone, un mosaico di razze ormai lontano dalla tradizione orobica. Ma a volte ritornano. Da qualche anno la Bruna alpina ha fatto la sua ricomparsa sulle Orobie valtellinesi, grazie ad alcuni produttori di Bitto storico, visto che il consorzio a cui fanno capo vieta proprio in alpeggio l’integrazione alimentare delle bovine, ormai diventata necessaria per tenere in piedi le Brune di origine americana.
Ora è la volta della Bergamasca.
Per il ritorno della razza originaria si parte dalla Valle Brembana, culla di formaggi: i primi due allevamenti tornati (o rimasti fedeli) alla Bruna alpina sono quelli dell’agriturismo Ferdy di Lenna (con cinque capi già certificati e arrivati da Austria e Svizzera, con alpeggio in Valle Inferno, Ornica) e alcuni capi, ancora da certificare, dell’allevamento di Ignazio Carrara (con alpe ai Laghi Gemelli). Proprio domenica scorsa il programma di Canale 5 Melaverde ha messo in onda una puntata dall’agriturismo Ferdy, incentrata anche sul recupero dell’antica razza bovina, da tempo messa da parte sulle nostre Alpi. «I primi capi – spiega ancora Campana – saranno visionati dagli esperti dell’Associazione nazionale razza Bruna, per verificarne la riconducibilità alla razza originaria. Momentaneamente prenderanno il nome di “linea carne” all’interno della razza Bruna, anche se tale denominazione è poco corretta e andrebbe modificata: le Brune alpine, infatti, hanno sempre avuto la doppia attitudine, alla carne ma anche al latte, con cui per secoli sono stati prodotti i nostri formaggi d’alpeggio. Una volta identificati i capi, l’Associazione provinciale allevatori aprirà il registro anagrafico e, con controlli semestrali, verificherà il mantenimento dei requisiti di razza».
«Valore per ambiente e turismo»
«Si tratta sicuramente di un ritorno positivo – aggiunge il funzionario della Provincia – soprattutto per quelle piccole realtà zootecniche, magari di montagna, che hanno tra gli obiettivi la salvaguardia ambientale, visto che una razza di questo tipo, più rustica e muscolosa, è anche più resistente e adattabile alla montagna». Un ritorno che potrebbe avere, per gli allevatori, anche una valenza economica – legata eventualmente a sovvenzioni europee per le razze in via di estinzione – ma soprattutto un ritorno che ha il valore della tradizione e dell’identità territoriale, con tutte le implicazioni positive in ambitoturistico.
Giovanni Ghisalberti – L’Eco di Bergamo