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giovedì 9 aprile 2015

Da oltre un secolo "rompono" con i fermenti e la standardizzazione

fonte: http://www.ruralpini.it/saperi(08.04.15)-La-secolare-battaglia-dei-fermenti.html

(08.04.15) È da oltre un secolo che i tecnocrati hanno ingaggiato la loro battaglia di esproprio dei saperi rurali e di imposizione della standardizzazione al formaggio bitto. Oggi abbiamo capito che l'igiene, il "progresso" non c'entrano. C'entra il controllo industriale totalizzante sulle filiere produttive

Da oltre un secolo "rompono" con i fermenti e la standardizzazione




Oggi, quando il bitto storico ha almeno parzialmente vinto la sua battaglia per evitare l'omologazione di metodi produttivi secolari ad una "modernizzazione" coatta, possiamo guardare al passato con più serenità e ricostruire una vicenda lunga un secolo. Una storia che ha visto i tecnocrati e le istituzioni, prima qualificare come inadeguata una produzione che si era fatta una grande reputazione da secoli, poi cercare di uniformare il prodotto alle tecnologie "razionali" del caseificio industriale. Un modo per arrivare a produrre durante tutto l'anno, in grossi caseifici, un formaggio leggendario che deve le sue caratteristiche peculiari all'alpeggio


Come forse i nostri lettori sapranno il formaggio Branzi, sino ai primi decenni del Novecento era era così chiamato perché nella località di Branzi in alta val Brembana  "[...] ricorre ogni anno una famosa fiera di formaggi, dove sono messi in vendita i prodotti di tutte le Alpi della Valle Brembana, e di gran parte della Valle Seriana e della Valtellina". Si trattava di formaggio grasso d'alpe prodotto anche sugli alpeggi della val Tartano e della stessa valle del Bitto che, in base alle descrizioni dei tecnici di inizio Novecento era molto simile all'attuale Bitto. Il "Branzi" era, infatti un formaggio duro a pasta cotta destinato alla stagionatura.
Nonostante la fama del Branzi/Bitto i tecnocrati dell'epoca avevano da ridire. Forte era il loro pregiudizio contro i bergamini (malghesi) produttori del Bitto/Branzi. Essi erano allevatori-casari transumanti che continuavano a fare la spola tra la pianura e la montagna e non andavano a genio alle "Istituzioni agrarie". Tanto che con giudizi tanto faziosi quanto ingenerosi li consideravano inadeguati, sia come allevatori che come casari (peccato che il loro bestiame e il loro formaggio - come dovevano riconoscere i tecnocrati a denti stretti - era ben commerciabile).

un casaro d'alpeggio del XV secolo: si sono secolo e millenni d'esperienza dietro le tecniche dei "casari ignoranti" disprezzati dai tecnocrati


"Non sanno né allevare né caseificare"

Il "nomadismo" era vissuto com un "disordine" dagli enti agricoli del tempo ovvero le Cattedre ambulanti (espressione istituzionale anche se non ancora ministeriale come divenne in seguito a partire dagli anni Venti). Essi, come del resto gli "scrittori" di cose agrarie (tutti di estrazione aristocratica o borghese) ne auspicavano già dalla metà dell'Ottocento (con Stefano Jacini) la "fissazione".
Lo Scalcini, direttore della Cattadra ambulante di agricoltura delle Valli bergamasche, nella relazione sull'attività della Cattedra stessa nel periodo 1906-1913 (Bergamo,1913)non nascondeva la sua poca simpatia per i bergamini che qualifica: "allevatori quanto mai primitivi" e vedeva nell'azione illuministica di "innalzamento intellettuale" della Cattedra un mezzo per facilitare la loro sedentarizzazione o al piano o in montagna (purché si fissassero...).

[...] noi abbiamo creduto che a facilitare questa trasformazione del mandriano in un allevatore a dimora stabile avrebbero potuto contribuire anche le nostre istituzioni agrarie, cercando di elevare la sua istruzione tecnica e, per conseguenza diretta, anche le sue condizioni economiche; di che per noi è pacifico che se i mandriani si assoggettano ancora alla loro attuale, dura vita, gli è per la semplice ragione che non hanno i mezzi di fare altrimenti

Ovviamente non era vero niente. I bergamini incarnavano una cultura "altra" da quella borghese e delle classi rurali "umili e sottomesse". Vestivano alla montanara perché preferivano investire nel bestiame e tesaurizzare. Erano tanto "pezzenti" che sono riusciti ad acquistare i fondi in pianura.  Oggi ci rendiamo che era lo spirito indipendente dei bergamini a risultare antipatico ai tecnocrati. Questi ultimi cercavano in ogni modo di favorire i "casalini" (i piccoli contadini-allevatori stanziali) promuovendo associazioni e consorzi di alpeggio e suscitando la concorrenza di queste aggregazioni a danno dei transumanti affittuari degli alpeggi. I "casalini" impersonavano il contadino sottomesso, senza orgoglio, che si vergogna di essere tale ed è più facilmente manipolabile dalle classi elevate e dai loro rappresentanti intellettuali, tecnici, burocratici.

Il formaggio deve essere "migliorato" (come il bestiame)

La preoccupazione dei tecnocrati consisteva nell'auspicio di  un "miglioramento" zootecnico caseario che coincidesse con le loro vedute preconcette. A loro (ieri come oggi) importava più che altro che fossero le loro scelte e il loro controllo a determinare gli indirizzi tecnici. Oggi sappiamo che in campo zootecnico gli errori dei tecnici furono clamorosi. L'imposizione autoritaria dei tori svizzeri (con la carota dei premi e il bastone della negazione dell'autorizzazione alla monta dei tori da parte dalle commissioni) era motivata più da preconcetti formalisti che da precisi indirizzi funzionali di miglioramento e, tra le due guerre, si impose un tipo di Bruna di diretta derivazione svizzera eccessivamente pesante e con eccessiva attitudine alla carne (carattere desiderato dagli svizzeri per assicurarsi, in vista dei venti di guerra del tempo, una buona autosufficienza).

Serina (Bg). Fiera del bestiane, anni Quaranta. Molta carne

Ma nel 1928 fu una vacca dei bergamini (di nome "Regina"), di tipo decisamente diverso da quello svizzero a battere sul filo di lana , vaticinio dei nomi, dopo aver vinto per tre anni consecutivi nelle mostre casalinghe alla Fiera-esposizione di Milano, con la produzione di 67 litri di latte in due giorni, conquistò il titolo di «Regina del latte» battendo, sia pure sul filo del rasoio, una Pezzata nera olandese. Era la prima volta che una Bruna Alpina montanara otteneva una simile affermazione. Poi proseguì l'ortodossia svizzerofila che comportò anche inconvenienti non da poco quando venivano vendute (o per meglio dire rifilate) indumping (con il sussidio federale) bovine da "risanamento".

La Regina dei bergamini. Molto latte ma animale di forme raccolte e sviluppo moderato compatibile con la montagna

Distrutto il ceppo di Bruna dei "primitivi e ignoranti" bergamini la razza si consegnò senza colpo ferire all'incrocio di sostituzione con la Brown Swiss, decisamente più lattifera. Siamo ormai in anni a noi vicini (fine anni Sessanta-inizio anni Settanta).  Questa volta i tecnocrati imposero qualcosa che era all'estremo opposto delle loro scelte precedenti e che non mancò di rivelarsi un errore clamoroso. Hanno guadagnato i commercianti di seme congelato, di mangimi, di farmaci.
Il montanaro trovandosi con vitelli di valore nullo si è dovuto arrangiare con l'incrocio industriale (usando seme di tori da carne); poi ha inizato a incrociare le vacche e l'attuale babele di razze e incroci in totale o parziale sostituzione di una Brow Swiss che non è adatta alla montagna è una Caporetto zootecnica. Tutto grazie ai tecnici. Che hanno sempre dimostrato di non avere per finalità il "progresso zootecnico e caseario" ma gli interessi dell'industria, di un sistema economico che voleva fare a meno di contadini indipendenti, che voleva materie prime a vile prezzo (latte, carne) e rendere completamente dipendenti dal mercato (sia dal punto di vista dell'acquisto degli input, che della cessione degli output) i produttori.
Il mercato capitalistico premia la specializzazione e aborriva dai bergamini autosufficienti che erano allevatori, casari, commercianti.  Ai tecnici piace la specializzazione e la quantità perché il produttore agricolo è poi costretto a cedere il suo unico prodotto (di cui non sa cosa fare altrimenti) accettando "con le mani dietro la schiena" un vile prezzo.

Un modello che reléga l'allevatore a dipendente del sistema industriale

In nome dell'igiene e della standardizzazione l'economia industriale ha puntato a concentrare l'attività di trasformazione agricola in poche unità di produzione.
Nei formaggi un passo decisivo per la standardizzazione è l'impiego di "innesti selezionati", ovvero di disciplinatiuniformati e prevedibili batteri lattici. Che si sostituiscono alla variegata, così intollerabilmente biodiversa, microflora spontanea con i suoi ceppi "selvaggi", i lieviti, gli eterofermentanti. Con una microflora disciplinata si possono applicare schemi di produzione relativamente costanti (tanto caglio,tanto tempo, tanta temperatura). Le lavorazioni diventano riproducibili, non c'è più bisogno delle competenze dei "mastri casari". Il sapere viene trasferito nei macchinari, nel capitale e viene sottratto alle persone. Alla fine il casaro diventa un supervisore che schiaccia i bottoni. Un secolo fa questi sviluppi erano embrionali in pianura mentre in montagna si era anni luce distanti da questo modello "razionalizzato". Il già citato Scalcini, però, nella Relazione sull'attività della Cattedra ci informa che:

...sempre per i miglioramento del branzi la cattedra ha coadiuvato il chiarissimo professor Gorrini della reggia scuola superiore di agricoltura di Milano in una sua esperienza di semina di fermenti selezionati, eseguita, nel 1909, sull'Alpe Ponteranica in comune di Mezzoldo. l'esito di queste prove è stato soddisfacente, in quanto che ne formaggi fabbricati con riferimenti si riscontrò una perfetta conservazione della pasta e un sapore delicato ed ottimo; mentre le forme di confronto, lavorati nelle stesse condizioni, ma senza fermenti, presentavano varie pecche. Pur riconoscendo la necessità di altre prove su più larga scala, si è però già incoraggiati a sperare che il brand si possa trovare nell'uso dei fermenti selezionati un mezzo molto efficace di miglioramento, specialmente per arrivare alla uniformità del tipo.

Un entusiasmo che pare eccessivo considerando che le prove di utilizzo di innesti selezionati nella lavorazione del Bitto (nel frattempo il Branzi non era più prodotto in alpeggio ma in caseificio) furono riprese dopo ottant'anni (Cavallotto G., Giangiacomo R., Carini S. Il formaggio Bitto: tecnologia, composizione e caratteristiche reologiche e di colore in il Latte, 13 -1988 -726-733). La finalità era sempre quella della "uniformazione" del prodotto.
In quei tempi non si nascondeva l'idea di seguire la strada di altri prodotti e di produrre un Bitto "migliore", lontano dagli alpeggi, in moderni e razionali "caseifici moderni".
Questo programma, era stato enunciato in un articolo su "Il formaggio bitto" apparso sulla rivista dell'Ispettorato agrario provinciale di Sondio (G.Delforno, A. Fondrini in   Rezia agricola e zootecnica n. 5 maggio 1976). Gli autori, dopo aver auspicato che "si provvedesse ad apportare alcune modifiche nei tradizionali, e talvolta irrazionali, metodi di lavorazione, nonché e a curare maggiormente l'aspetto esteriore e la confezione del prodotto finito" indicavano questa soluzione:

tutto ciò si potrebbe ottenere, ad esempio, con la costituzione di alcuni moderni caseifici nella zona, che- disponendo di maggiori quantitativi di latte da lavorare ed adottando più razionali procedimenti di fabbricazione- potrebbero non solo produrre reddito tutto l'anno, ma anche conseguire quei miglioramenti produttivi e merceologici, che sono compatibili con i recenti progressi raggiunti in ogni campo dall'industria lattiero casearia del nostro paese

Generazioni di studiosi di caseificio erano arrivate alla conclusione che la qualità di un prodotto artigianale poteva migliorare solo con l'adeguamento ai progressi della tecnologia industriale.
Ancora una volta un abbaglio colossale, smentito anche dalle successive generazioni di tecnici e ricercatori che hanno dovuto ammettere - sia pure solo di recente - che è superiore il prodotto artigianale, realizzato da mani esperte e con una materia prima ben diversa da quella di cui può disporre l'industria (latte anestetizzato e pastorizzato di vacche pompate di mangimi e integratori).

Una rivincita per i bergamini e per quelle "teste dure" refrattarie alla manipolazione dei tecnici e dei politici come Paolo Ciapparelli che ha saputo far rivivere una cultura di "autonomia rurale e contadina" pur essendo un "venditore di piastrelle" (in realtà proprio grazie a questo e alla possibilità di sfuggire ai condizionamenti, manipolazioni, piccoli e grandi ricatti che gli "agricoli" hanno troppo spesso accettato di subire).


martedì 20 settembre 2011

A Cheese trionfo del Bitto storico e dell'alleanza della tradizione casearia orobica

(19.09.11) Protagonista di Laboratori, degustazioni, e di un successo di vendite (con i prezzi più alti in assoluto) il Bitto storico ha conquistato a Cheese2011 lo scettro di re dei formaggi e al tempo stesso il riconoscimento di capofila del movimento della resistenza casearia


Giornate esaltanti per il Bitto storico a Bra. Tanti, tantissimi riconoscimenti, meritati grazie ad anni di lotte e di sacrifici. Un successo che è frutto di una lunga storia, dei casari e pastori che hanno saputo tenere viva la tradizione ma anche di tantissimi altri 'ribelli del Bitto' che con il loro lavoro volontario e il sostegno economico hanno costruito quello che oggi è divenuto un mito inaffondabile.

Il contrasto tra i riconoscimenti tributati a Cheese al Bitto storico e il trattamento che ad esso  è riservato dalle istituzioni (locali e non) è sconcertante. A Bra per quattro giorni il Bitto storico è stato protagonista di laboratori, degustazioni, interviste a raffica, aste. Senza contare la presentazione del libro "I ribelli del bitto". Ogni giorno della rassegna c'è stato almeno un evento importante sul tema del Bitto. Non parliamo dello spazio che gli è riservato nei comunicati ufficiali.


Il Bitto è stato consacrato re dei formaggi d'alpeggio, punto di arrivo della qualità che solo i prodotti a latte crudo, ottenuti al pascolo (senza integratori)  senza aggiunta di fermenti selezionati sanno raggiungere.  Ma è un nobile ribelle, emblema della resistenza contadina e casearia. Un modello che regala speranza ai tanti piccoli produttori che caparbiamente resistono, sfidando le normative e un mercato poco generoso con chi produce qualità e riproduce valori. Il Bitto storico rappresenta un'economia morale in cui non c'è solo la passione e l'attaccamento dei produttori alla loro cultura, ai loro saperi, c'è anche una mobilitazione molto moderna (anzi, post-moderna) di tante energie del volontariato, c'è una incredibile rete di solidarietà. C'è un caso concreto di community supported agriculture, di una 'filiera' in cui i privati suppliscono all'assenza (che con il Bitto storico è anche ostilità) delle istituzioni, in cui i privati, la community del Bitto storico (locale e non) ha saputo investire centinaia di migliaia di euro ma, anche un numero incalcolabile di ore di lavoro volontario.


Emblema della resistenza casearia (spiegata al pubblico nei banner delle foto sopra e sotto) il Bitto storico e i suoi fratelli dell'alleanza dei formaggi orobici sono stati gratificati di uno spazio e di una visibilità notevoli nell'ambito di Cheese. Il Bitto storico ha avuto assegnato il primo delle decne di stand (10 mq) dei Presidi, in via Marconi. Con il vantaggio che mentre gli altri stand avevano solo un fronte sulla strada quello del Bitto storico era aperto su due lati con doppio sviluppo lineare di banco vendita. Ma quello che ha dato visibilità è stato lo spazio (ex mercato dei polli) di 350 mq dove oltre agli stand dei formaggi orobici e di piccoli produttori ospiti del Bitto e degli altri orobici. Una espressione di apertura e di solidarietà che la dice lunga sullo spirito che anima l'alleanza orobica, che nasce al di là dei campanilismi e dei limiti amministrativi di provincie e comunità montane.  Nel grande spazio occupato oltre che dagli stand anche dai pannelli illustrativi dei formaggi orobici e da un 'ristorante' da cinquanta posti si sono susseguite le degustazioni.


Lo spazio è stato intitolato Piazza della Resistenza Casearia: piccoli produttori per grandi formaggi. Strameritata dal Bitto storico, prototipo di resistenza casearia, questa intitolazione è risultata quanto mai appropriata anche per i piccoli produttori ospitati ma anche per un prodotto orobico come lo Stracchino all'antica, realizzato da piccolissimi produttori, per il Formai del Mut, realizzato (in estate) sugli alpeggi della val Brembana nello stesso territorio del Bitto. Va poi ricordato che anche lo Strachitunt e il Branzi FTB che sono prodotti in caseifici cooperativi (di dimensione comunque non industriale) stanno sostenendo da tempo una difficile battaglia per difendere le rispettive denominazioni dai prodotti di caseifici di pianura che sfruttano queste denominazioni.


Durante tutto Cheese si sono susseguite le interviste al 'guerriero del Bitto'. Alcuni giornalisti sono venuti anche nel calécc, uno spazio relativamente tranquillo.


Mentre da una parte si vendeva Bitto storico a manetta e dall'altra si mesceva la sublime birra ZAGO (sostenitrice del Bitto storico) e si susseguivano le degustazioni nel calécc si poteva parlare comodamente seduti. Spesso con un assaggio di Bitto storico o di qualche altra specialità particolare. Enrico Ruffoni, il casér, il fido braccio destro di Ciapparelli ci ha fatto assaggiare i salumi che produce per sé, tra questi un prodotto particolare di Gerola, guanciale di maiale infarcito di pancetta e... stagionatissimo.


Si è degustata nel calécc anche la bresaola di Chianina, prodotta e stagionata nella valtellinese val Malenco di Simone Fracassi (il re della Chianina). Vere rarità. Mentre con Ciapparelli, Mario Chiarada (patron della Zago) e altri effettuavamo queste degustazioni 'extra' ci siamo detti "Con quello che facciamo per questi prodotti ce lo meritiamo". Queste 'pause' per quanto memorabili sono state abbastanza brevi. Nel calécc sono passati parecchi personaggi legati alla storia del Bitto storico (oltre ad amici e conoscenti vari). Nella foto sotto oltre a Ciapparelli e alla intervistatrice c sono altri due personaggi: Cristina Gusmeroli e il suo fidanzato Andrea.


Cristina è la giovanissima casara che ha iniziato a fare Bitto storico (da sola) a quindici anni. Ora ha diciassete anni ed è venura sino a Bra con Andrea. Al laboratorio dei giovani casari lei era la più giovane ma ha saputo tenere alto l'nore del Bitto storico egregiamente. Non ho assistito al laboratorio (dovevo presideiare il calécc) ma mi è stato riferito che la miscela di candore, determnazione, competenza di Cristina ha commosso i presenti che si sono alzati in piedi per applaudirla. Se lo merita. La sua è una storia bella anche per come ha conosciuto Andrea. Abitano in paesi vicini ma si sono conosciuta su facebook parlando di capre e per la precisione commentando un mio post sulla capra Annette. Una capra ossolana di diciassette anni di cui ho parlato più volte qui su Ruralpini ma anche su fb. Andrea è un allevatore per passione. Ha capre Orobiche e una vacchetta Grigia. Da quando sono fidanzati le da in guardia alla sua ragazza. Mi hanno parlato molto bene della vacchetta che,  piccola e agile, produce molto latte ed è buona da mungere. Si può non commuoversi con la storia di questi ragazzi?


Nella foto sopra possiamo vedere il calécc collocato tra lo stand del Presidio del Bitto storico e lo spazio coperto della Piazza della Resistenza casearia. Anche a Bra il calécc - o meglio iltendùn che lo copriva - ha fatto il suo dovere. Sabato sera si è scatenato uno statemp(espressione lombarda per indicare un evento metereologico violento). La tenda non ha lasciato filtrare una goccia mentre l'acqua entrava a ruscelli scorrendo lungo il cordolo del marciapiede. C'è stata un po' di confusione, è saltata la luce (anche negli stand) e c'è stata la corsa a riparare dall'acqua i materiali esposti o appoggiati a terra. Il calécc ha rappresentato una nota di autenticità pastorale. Negli stand dei presidi comunque non mancavano veri pastori e alpeggiatori (come testimoniato dalle facce famigliari o no che si incontravano)I Presidi, al di là delle critiche a quello uno piuttosto che all'altro (che non siano tutti 'duri e puri' , hanno consentito ad un mondo che prima non aveva accesso a una ribalta di entrare in contatto con un mondo che prima era molto distante, quello della ristorazione, delle rivendite specializzate, dei Gas, delle associazioni. La dimensione locale va salvaguardata ma se non ci sono canali con l'esterno dove il mondo è tutt'altro che ostile essa rischia di morire per soffocamento in balia di interessati 'mediatori' (commerciali, politici, burocratici, tecnici). Passando su e giù dagli stand dei presidi e cogliendo spezzoni di conversazioni ho avuto la sensazione che questi canali siano attivati.


L'esperienza di Cheese mi ha consentito di rivedere gli stereotipi sui 'giovani d'oggi'. Ci sono  i ragazzi come Cristina ma anche i giovani e giovanissimi contadini o pastori della nuova generazione. Durante la presentazione del Bitto e in altre occasioni Paolo Ciapparelli lo ha ribadito più volte "date ai ragazzi delle motivazioni, pagate il giusto i loro prodotti e ne entreranno parecchi in agricoltura". Non c'è altra via per salvare l'agricoltura di qualità, per avere cibo buono pulito e giusto. Ci vuole una nuova leva di contadini. Oltre a garantire prezzi etici vanno anche tolte la burocrazia e le corsie preferenziali per l'agricoltura 'imprenditoriale', delle monocolture, dell'ipermeccanizazione e chimicizzazione legata all'industria. A parte i pastori e casari presenti anche gli altri giovani che hanno lavorato agli stand sono ben diversi dall'immagine del ragazzo bamboccione. Monica, la ragazza che raccoglieva le prenotazioni per le degustazioni (foto sopra e sotto) è una studentessa di Scienze gastronomiche che parla un inglese molto fluent. Ha lavorato senza sosta mettendoci del suo, promuovendo con passione quello che 'vendeva'; illustrando i contenuti delle degustazioni che nel programma scritto erano state presentate in modo molto sintetico. Ho dovuto quasi costringerla a staccare per 'farsi' una degustazione dicendole che l'avrei sostituita volentieri per un po'. Dopo pochi minuti me la vedevo tornare e riprendere con entusiasmo il lavoro. Giovani scansafatiche? Sì, purtroppo ce ne sono parecchi (parlo per esperienza personale con gli studenti) ma altri sono anche meglio delle generazioni precedenti.


Queste considerazioni sui giovani tutt'altro che demotivati e scansafatiche valgono anche per i ragazzi dello stand del Bitto storico (sotto). Anche loro - pur concedendosi brevi turni - hanno lavorato in modo accanito. Si tratta di ragazzi che per la maggior parte non sono direttamente coinvolti come produttori ma, pur lavorando in altri settori (pubblicità, turismo) sentono molto la causa del Bitto storico, tanto da dedicarle il loro lavoro volontario. Per alcuni si tratta di un impegno saltuario, per altri più continuativo (come quelli che curano il sito). Vendere il Bitto storico (con prezzi sino a 75 € al kg) è diverso rispetto a vendere un formaggio qualsiasi. La gente chiede spiegazioni, vuole sapere che storia c'è dietro. E qui ho notato che oltre alla passione questi ragazzi hanno anche una preparazione 'politica' che è frutto anche di quello che vado scrivendo e dicendo sul Bitto da anni. È bello sentirsi un 'cattivo maestro', un 'sobillatore' se la causa 'sovversiva' che promuovi è una causa cristallina come quella del Bitto storico.
È stato anche  bello sentire mescolare considerazioni politiche e informazioni tecniche e commerciali, sentire il trasporto con cui le vicende della 'guerra del Bitto' vengono - in pillole ma correttamente - veicolate al pubblico di Cheese. Anche in questo si percepiva che questa non è solo una fiera.


Sul banco del calécc campeggiava una forma di Bitto storico molto particolare. Intanto è una forma dl 2004 che reca il marchio "Valli del Bitto" (utilizzato tra il 2003 e il 2005), poi ha una storia singolare. Qualche giorno prima di Cheese ha ferito Ciapparelli. Il nostro guerriero, dopo tante battaglie, è stato colpito da una delle sue creature. Una creatura che ha salvato, evitando che cadesse a terra. Ma nel salvarla dalla caduta l'ha presa in faccia e una forma di sette anni, con gli spigoli vivi dovuti alla convessità dello scalzo del Bitto, fa male. Così Paolo ha dovuto farsi suturare con cinque punti la ferita sopra il labbro. Per concedere alla forma traditrice di redimersi Paolo ha ben pensato di trasformarla in testimonial della campagna di azionariato popolare (foto sotto). Io non posso che rilanciare l'appello scritto sul piatto ricordando a tutti gli amici del Bitto storico la possibilità di diventare soci della società etica che commercializza sottoscrivendo almeno una azione (150€) come diventare azionisti




A Cheese il Bitto storico ha ribadito di essere Bitto storico orobico, parte integrante dell'alleanza dei formaggi orobici, un'alleanza che ha provato un centro propulsore in alta val Brembana e in particolare a Branzi dove settimana prossima (24-25 settembre) si terrà la Fiera di S.Matteo. Tra gli animatori dell'allenza Francesco Maroni (latteria di Branzi e presidente della Fiera di S.Matteo), Alvaro Ravasio (presidente del Consorzio Starchitunt) e Ferdy Quarteroni (produttore di Formai de Mut e patron dell'agriturismo Ferdy).


Al progetto di "distretto rurale" orobico, vero progetto di massiccio che unisce valli di tre provincie, Ferdy porta la sua esperienza di agriturismo ruralpino di avanguardia. Da anni lavora con i ragazzi. Le sue settimane verdi che prevedono l'alzarsi presto la mattina e il lavoro in alpeggio sono frequentate da numerosi ragazzi che vengono da varie parte d'Italia. Fanno sport, si 'immergono nella natura' ma imparano a vederla anche con gli occhi del contadino svolgendo una serie di lavori e imparando alcune manualità contadine.


Torniamo al Bitto storico. La degustazione clou è consistita in una verticale con tre annate: 2007 (alpe Cavizzola), 2005 (alpe Ancogno s.) e 2001 (alpe Ancogno s.). Dieci anni e non li dimostra verrebbe da dire. La forma del 2001 è quella che nella foto sotto 'regge' le altre. A parte gli occhi bianchi che non sono occhi ma accumuli dell'aminoacido tirosina (come nel Grana stravecchio) la pasta non differiva da quella della forma più giovane. La scagliatura era analoga. Insomma un formaggio vivo e vegeto che alla degustazione ha raccolto anche più consensi del 2005. Cosa dire? Che quando si dice che il Bitto storico può invecchiare dieci anni non sono balle (hinn minga ball). Certo non c'è un mercato. Le forme sono poche e conservate gelosamente ("quando ne apro una - dice Ciapparelli - è una tristezza perché è una in meno"). Però si possono acquistare le forme di sei-sette anni senza problemi (consapevoli del costo). Ma nel settore enologico non ci sono bottiglie da migliaia di euro?


Sotto il Bitto storico decennale con Mario Chiaradia (birra Zago) e Paolo Ciapparelli. In questa degustazione l'accompagnatore dei bitti stravecchi è stato lo Sfurzat 5 stelle Negri ma nell'altra verticale con annate meno 'vertiginose' la birra Zago ha degnissimamente affiancato il super Bitto. Si parla di una birra rifermentata in bottiglia con metodo champenoise, nata nel 2006 e imbottigliata nel 2008 con 11 gradi alcolici. Sotto ci sono filosofie simili, l'allevamento dei microbi, la pazienza. Non basta "bisogna anche essere un po' matti" (dicono di sé stessi i papà di questi prodotti). Per fortuna che questi 'matti' esistono.

sabato 10 settembre 2011

A Cheese2001 Bitto storico protagonista (e sono orgoglioso di dare un contributo)

(10.09.11) Aspetto tutti gli amici di Ruralpini e del formaggio buono pulito e giusto a Bra dal 16 al 19. Al calécc che apre l'esposizione del formaggi dei presidi e alla presentazione del libro "I ribelli del bitto"

di Michele Corti

Mancano pochi giorni a Cheese 2001. Oltre ai produttori, guidati dal formidabile 'guerriero del Bitto' (Paolo Ciapparelli) si stanno preparando al grande evento anche i paladini del Bitto come me. Ma tutti potete diventare paladini di questo straordinario  formaggio che sta diventando un punto di riferimento per le esperienze di resistenza casearia in Italia e nel mondo.

La grande visibilità del Bitto storico a Cheese2011: in nome della resistenza casearia

Durante la manifestazione i produttori del Bitto storico Presidio Slow Food gestiranno insieme ai "Formaggi principi delle Orobie" lo spazio della  Piazza della resistenza casearia (piazza Valfrè di Bonzo – ex Mercato dei polli)(punto 7 della mappa - in alto). Nello spirito di una solidarietà concreta in questo stesso spazio sranno ospitati - in nome della resistenza casearia - piccoli produttori di diverse parti d'Italia. Nello spazio i ribelli del Bitto accoglieranno i visitatori con degustazioni di Bitto, polenta e pizzoccheri, oltre ai formaggi delle Orobie che comprendono il (vero) Branzi, lo Strachitunt (dop in itinere), il Formai del Mut Dop, lo Stracchino all'antica delle OrobiePresidio Slow Food, l'  Agrì di Valtorta Presideio Slow Food. Accanto alla Piazza della Resistenza allestiranno un calècc, una delle mitiche 'capanne casearie', ancora utilizzate per produrre il Bitto storico direttamente sul pascolo. Un sistema che è al vertice assoluto della qualità: non è la mucca che si sposta, è il caseificio! La madria (detta localmente malga) viene munta davanti al calécc e il latte raccolto ne secchio viene svuotato direttamente nella caldaia. Il calècc, di Bra sarà collocato in modo da collegare la Piazza della Resistenza casearia con lo stand ufficiale del Bitto storico.
E qui entro in scena io, perché  nel calécc  troverete me. Ovviamente fatti salvi alcuni giri per gli stand amici e alcuni momenti imperdibili quali la presentazione del mio libro "I ribelli del Bitto" (sabato 17 ore 17 presso Slow Food editore in Via della Mendicità istruita 45), l'assegnazione del premio Resistenza casearia (venerdì 16 ore 16 in Piazza Martiri), il dibattito sui giovani pastori e alpeggiatori (domenica 18 alle 12). Cosa sarò a fare nel calécc?

Azionariato popolare

Oltre a presentare a tu per tu quella che è stata la mia 'fatica letteraria' (una volta si diceva così ma c'era del vero....) di cui sotto potete conoscere i dettagli e leggere la Prefazione di Piero Sardo, il compito che mi sono assegnato da Paladino del Bitto storico (ovviamente d'accordo con i produttori ribelli e la Bitto trading) è quello di promuovere l'azionariato popolare. Una idea che ho accolto entusiasticamente quando Ciapparelli l'ha lanciata perché traduce in realtà quanto si dice e si pratica da anni (all'estero però) sulle nuove forme di supporto dal basso ai produttori agricoli. Che rientrano nella formula di Carlin Petrini del 'coproduttore'. Lascio alle parole del comunicato ufficiale di Slow Food spiegare cosa succederà a Cheese.
Proprio per supportare finanziariamente i casari coinvolti nella produzione tradizionale di questo prodotto dalle straordinarie capacità di invecchiamento, è nata la Valli del Bitto trading spa. Si tratta di una società per azioni capeggiata dal presidente dei produttori e costituita dagli stessi casari e da piccoli imprenditori e professionisti. La società, spinta dal successo dell’iniziativa, ha deciso di incentivare la partecipazione al progetto di tutela del bitto storico attraverso un azionariato popolare con il quale chiunque può mettere a disposizione una quota. Una vera e propria community supported agriculture del formaggio in cui il consumatore, sostenendo finanziariamente l’impresa, si trasforma in coproduttore. A Cheese gli stessi casari, primi “azionisti” dell’iniziativa, presentano al pubblico i progetti per la crescita della produzione e dell’invecchiamento del bitto e per lo sviluppo del territorio e del turismo nelle vallate.
A me l'onore di spiegare ai potenziali coproduttori del Bitto storico come si fa a partecipare all'azionariato popolare. Per gli interessati vi sarà la possibilità di compilare i moduli di prenotazione delle quote azionarie della società etica che rappresenta il braccio operativo del Consorzio salvaguardia del Bitto storico (da non confondere con il Consorzio ufficiale CTCB contro cui si è sviluppata la ribellione). Notizie più dettagliate le trovate già nell'articoloDecolla l'azionariato popolare per il Bitto storico . Anticipo che è sufficiente un versamento di 150€ (la taglia delle quote) per diventare azionisti etici del Bitto storico. L'aumento di capitale sarà deciso tra qualche settimana e tutti coloro che hanno prenotato le azioni diventeranno a tutt gli effetti soci. Naturalmente sarò anche a disposizione di tutti coloro che vogliono saperne di più sul Bitto storico, sulla sua storia antica e recente. È un grande onore per me essere il consulente culturale (a titolo volontario) dei ribelli e spero che molti di voi si uniranno a me nel ruolo di Paladini del Bitto storico (stiamo formalizzando anche una associazione culturale con questo nome).


I ribelli sono ora un libro

L'idea covava nella testa da parecchio (non anticipo quanto scritto nell'introduzione). C'era il titolo e la condivisione da parte di Slow Food. Vuole essere una cronistoria e un racconto di parte ma senza rinunciare al rigore dell'opera documentata. Forse qualche passaggio è un po' da saggio accademico ma nel complesso credo che pulsi la passione e mi auguro che questa passione sia contagiosa. Per ora mi limito a presentarlo con le parle di Piero Sardo (sotto la Prefazione). Dopo Bra pubblicherò l'Introduzione.

Testi: Michele Corti
Titolo: I ribelli del bitto. Quando una tradizione casearia diventa eversiva
Collana: asSaggi
Prezzo: 14,50 euro - prezzo soci Slow Food 11,50 euro
Pagine: 192
Formato: 13x21
La presentazione avverrà in anteprima il giorno 17 settembre alle ore 17 presso il Caffè letterario e musicale nel cortile di Slow Food editore, durante la manifestazione Cheese. L'indirizzo è via della Mendicità Istruita 45, BRA (Cn) (vedi punto 12 in mappa)
La ribellione anima un’intera comunità che si riconosce attorno a una specificità negata in nome della standardizzazione
Ne parlano:
Michele Corti, docente universitario, blogger, ruralista e autore del libro
Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità
Con la partecipazione dei produttori del Bitto storico
L’assaggio: il bitto storico degli alpeggi ribelli delle Orobie occidentali: valle del Bitto (So), dalta val Brembana (Bg) e alta val Varrone (Lc) - Presidio Slow Food


Non usa fare autorecensioni. Con piacere però riporto a presentazione del libro  la prefazione dell'amico Piero Sardo. Il ruolo di Piero nella vicenda è stato cruciale. Spero che emerga comunque dalla esposizione delle vicende del Bitto anche se Piero ha voluto che fosse ridimensionato il paragrafo che lo riguardava con considerazioni tratte da esperienze di prima mano, dalla mia testimonianza dall'interno della 'vicenda Bitto'. Non è frequente trovare che si comporta come Piero e in questa sede, e nelle occasioni in cui avrò la possibilità di farlo, ci tengo a farlo sapere.

Prefazione di Piero Sardo a "I ribelli del bitto"

Perché lo fanno? Perché questo gruppo di malgari valtellinesi da anni si rifiuta di assecondare le indicazioni delle istituzioni – consorzi, assessorati, sindaci, ministero – e rivendica orgogliosamente la sua diversità? Sarà questa la domanda che vi porrete quando avrete letto le pagine di questo libro, quando avrete seguito capitolo per capitolo gli eventi narrati da Michele Corti, le tappe di un decennale conflitto che è stato sintetizzato nel titolo I ribelli del bitto. Per lo meno è la domanda che io mi sono posto, non certo per dubitare della straordinaria valenza politica di questa battaglia, alla quale non posso che applaudire, ma per tentare di capire le opzioni psicologiche in gioco, le ragioni sociali di questa gente e di queste comunità.
Va detto che nella vicenda non sono neutrale: il rapporto che lega Slow Food ai ribelli del bitto è di antica data e di grande condivisione. Ma molti, moltissimi lettori meno coinvolti, invece, se la porranno la domanda, non tanto per capire, ma per dar sfogo, magari inconsciamente, alla solita italianissima dietrologia, all’immancabile «cosa c’è sotto?».
In questi anni abbiamo assistito a gesti di reazione assai più eclatanti di questa ribellione: operai su torri e ciminiere, digiuni devastanti, dissidenti che hanno sacrificato la vita per un’idea, giovani che sfidavano la repressione più violenta per manifestare il loro dissenso. Ma in questi casi i termini della questione erano chiari, era in gioco il lavoro, la libertà di espressione, la dignità sociale e politica: si poteva essere d’accordo o no con leproteste, ma non vi era dubbio sulle ragioni delle stesse.
Nella vicenda del bitto e dei suoi protagonisti le ragioni del conflitto sono chiare e il libro ben le sottolinea, ma la posta in gioco non pare così evidente. Loro continuerebbero comunque a fare i malgari, a produrre bitto come meglio credono, a venderlo alla sempre più folta schiera di appassionati e conoscitori, anche rientrando nei ranghi, anche accettando le regole che altri hanno dettato per questo antico formaggio. E infatti assessori e funzionari, ogni volta che si vedono respinte le proposte di mediazione, scuotono il capo un poco increduli: «cosa c’è sotto?».
Provo a spiegarla raccontandovi di mia nonna. Lo so, raccontare della famiglia è uno snodo usurato e retorico, ma l’esempio secondo me è calzante e aiuta a comprendere.
Mia nonna Nina era una cuoca straordinaria, cucinava un mix di piatti liguri e monferrini che non ho mai più ritrovato a tale livello di perfezione. Verdure ripiene, zuppe di legumi, torte verdi salate, agnolotti quadrati, gnocchi, coniglio al barbera, cima alla genovese, pollo alla cacciatora, subric, peperoni in salsa, batsoà e così via, per un ricettario magari non amplissimo, ma irresistibile. Tutti i giorni. Le materie prime erano direttamente sotto il suo controllo: viveva in campagna e allevava polli, faraone e conigli, coltivava l’orto, metteva via personalmente frutta, verdure, conserve di pomodoro. E decapitava oche, scuoiava conigli, tirava il collo a capponi con la pacata indifferenza tipica dei contadini e del loro duro, a volte crudele, rapporto con gli animali, anche se lei non era di famiglia contadina. Ma per cucinare bene le carni, diceva, gli animali bisogna ucciderli di persona, senza farli soffrire, senza trasportarli, senza spaventarli: così si capisce bene quanto vale quella carne e come bisogna cuocerla. Tant’è vero che a casa nostra si mangiava raramente carne bovina: perché arrivava da altre mani. E per far questo tutte le sante mattine era in piedi alle sei, estate e inverno, che dovesse cucinare per sé e suo marito o per venti, quanti eravamo nelle feste del paese fra figli e nipoti. Alle sei e mezza le pignatte erano sul fuoco e così per tutta la mattina era un andare e venire tra orto, pollaio e cucina. Lo ha fatto sino a ottant’anni, prescindendo da una ragione precisa: lo ha fatto perché era il suo modo di concepire la cura della casa, di preparare il cibo, la sua volontà di non cedere al supermercato, al pelato in scatola, ai filetti di pollo, all’insalata in sacchetto. Non era una ribellione, era un modo di essere, non aveva obiettivi da raggiungere. A volte eravamo noi, i parenti, a dirle: «rilassati, non è il caso, basta stare un poco assieme». Potreste addirittura giudicarla una forma di pacata follia, e forse lo era, ma per lei era nulla di più e nulla di meno di quel che andava fatto. E solo quando non abbiamo più potuto godere di quella cucina ci siamo resi conto di quanto avevamo perso. Mentre lei c’era e cucinava, a noi pareva la normalità avere quei piatti e a lei pareva normale fare come faceva.
Questa mia esperienza personale si lega alla vicenda del bitto storico perché l’unica spiegazione che può rendere conto dei comportamenti di Nina e dei ribelli si basa su motivazioni non economiche, ma direi – senza paura di esagerare – etiche. Il lavoro dei malgari, di questi malgari – tra i più duri per fatica fisica, impegno, tempo e competenze necessarie che oggi sia dato conoscere – sopravvive per ragioni essenzialmente culturali ed etiche. Certo, la remunerazione conta e ci mancherebbe: il bitto dei ribelli, grazie anche al lavoro di Paolo Ciapparelli e dell’Associazione, vale più del doppio del formaggio del Consorzio, e questo è importante per rinsaldare motivazioni e dettare strategie. Ma, come dicevo prima, potrebbero continuare a produrlo anche se fossero all’interno del Consorzio, anche se accettassero di sottostare a un disciplinare che non condividono. Anzi, potrebbero usufruire delle elargizioni che molti promettono, a patto che cessi il conflitto.
Non accettano di essere assimilati agli “accomodanti” – chiamiamoli così tanto per capirci – perché sanno benissimo che così facendo alla fine il loro destino sarebbe segnato. Ma gari non loro, ma chi verrà dopo di loro comincerà a chiedersi il perché di tanta fatica, le ragioni di tanta intransigenza, e comincerà a cedere, a usare fermenti e mangimi, ad abbassare la quota del latte caprino, ad abbandonare la caseificazione nei calécc: insomma a rinunciare piano piano alla monticazione tradizionale e al bitto storico.
Per evitare proprio questo probabilissimo cedimento, hanno deciso, da anni ormai, di fare di questa loro opzione una scelta di vita, un filo che lega un’intera comunità alla sua storia, al suo habitat, al suo futuro. Non è una pura e semplice questione di identità da preservare: troppe nefandezze vengono commesse nel mondo in nome dell’identità, del localismo cieco, del particolarismo. Basterà leggersi lo splendido libretto di Amin Maaluf, L’identità, per comprendere a fondo quanti pericoli si celino dietro questo concetto, che pure è sacrosanto rivendicare. Non vi diranno mai «noi siamo i puri, gli altri hanno venduto l’anima». Sanno benissimo che anche gli altri, gli accomodanti, vanno in alpeggio, faticano, credono nella tradizione, producono buoni formaggi: ma hanno fatto un passo indietro. Vi diranno: «noi facciamo così perché questo a noi pare il modo corretto di fare, perché questo è quanto facevano i nostri padri e i nostri nonni su queste montagne».
Ora, senza bitto storico si può certamente vivere, se ne può fare a meno. Come si può fare a meno di Mozart, delle chiese romaniche, di Thomas Mann: ma la deriva che innesca questo fare a meno può avere conseguenze catastrofiche, perdonatemi l’enfasi, per la nostra umanità, per la nostra civiltà. Se vi pare eccessivo, sicuramente avrà effetti deleteri per l’ambiente alpino e per l’eccellenza casearia. Vi pare poco? Mi auguro di no. Per Slow Food questa è una grande lezione, una fonte di ispirazione e di incoraggiamento, alla quale non siamo disposti a rinunciare senza lottare con i ribelli.