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sabato 10 settembre 2011

A Cheese2001 Bitto storico protagonista (e sono orgoglioso di dare un contributo)

(10.09.11) Aspetto tutti gli amici di Ruralpini e del formaggio buono pulito e giusto a Bra dal 16 al 19. Al calécc che apre l'esposizione del formaggi dei presidi e alla presentazione del libro "I ribelli del bitto"

di Michele Corti

Mancano pochi giorni a Cheese 2001. Oltre ai produttori, guidati dal formidabile 'guerriero del Bitto' (Paolo Ciapparelli) si stanno preparando al grande evento anche i paladini del Bitto come me. Ma tutti potete diventare paladini di questo straordinario  formaggio che sta diventando un punto di riferimento per le esperienze di resistenza casearia in Italia e nel mondo.

La grande visibilità del Bitto storico a Cheese2011: in nome della resistenza casearia

Durante la manifestazione i produttori del Bitto storico Presidio Slow Food gestiranno insieme ai "Formaggi principi delle Orobie" lo spazio della  Piazza della resistenza casearia (piazza Valfrè di Bonzo – ex Mercato dei polli)(punto 7 della mappa - in alto). Nello spirito di una solidarietà concreta in questo stesso spazio sranno ospitati - in nome della resistenza casearia - piccoli produttori di diverse parti d'Italia. Nello spazio i ribelli del Bitto accoglieranno i visitatori con degustazioni di Bitto, polenta e pizzoccheri, oltre ai formaggi delle Orobie che comprendono il (vero) Branzi, lo Strachitunt (dop in itinere), il Formai del Mut Dop, lo Stracchino all'antica delle OrobiePresidio Slow Food, l'  Agrì di Valtorta Presideio Slow Food. Accanto alla Piazza della Resistenza allestiranno un calècc, una delle mitiche 'capanne casearie', ancora utilizzate per produrre il Bitto storico direttamente sul pascolo. Un sistema che è al vertice assoluto della qualità: non è la mucca che si sposta, è il caseificio! La madria (detta localmente malga) viene munta davanti al calécc e il latte raccolto ne secchio viene svuotato direttamente nella caldaia. Il calècc, di Bra sarà collocato in modo da collegare la Piazza della Resistenza casearia con lo stand ufficiale del Bitto storico.
E qui entro in scena io, perché  nel calécc  troverete me. Ovviamente fatti salvi alcuni giri per gli stand amici e alcuni momenti imperdibili quali la presentazione del mio libro "I ribelli del Bitto" (sabato 17 ore 17 presso Slow Food editore in Via della Mendicità istruita 45), l'assegnazione del premio Resistenza casearia (venerdì 16 ore 16 in Piazza Martiri), il dibattito sui giovani pastori e alpeggiatori (domenica 18 alle 12). Cosa sarò a fare nel calécc?

Azionariato popolare

Oltre a presentare a tu per tu quella che è stata la mia 'fatica letteraria' (una volta si diceva così ma c'era del vero....) di cui sotto potete conoscere i dettagli e leggere la Prefazione di Piero Sardo, il compito che mi sono assegnato da Paladino del Bitto storico (ovviamente d'accordo con i produttori ribelli e la Bitto trading) è quello di promuovere l'azionariato popolare. Una idea che ho accolto entusiasticamente quando Ciapparelli l'ha lanciata perché traduce in realtà quanto si dice e si pratica da anni (all'estero però) sulle nuove forme di supporto dal basso ai produttori agricoli. Che rientrano nella formula di Carlin Petrini del 'coproduttore'. Lascio alle parole del comunicato ufficiale di Slow Food spiegare cosa succederà a Cheese.
Proprio per supportare finanziariamente i casari coinvolti nella produzione tradizionale di questo prodotto dalle straordinarie capacità di invecchiamento, è nata la Valli del Bitto trading spa. Si tratta di una società per azioni capeggiata dal presidente dei produttori e costituita dagli stessi casari e da piccoli imprenditori e professionisti. La società, spinta dal successo dell’iniziativa, ha deciso di incentivare la partecipazione al progetto di tutela del bitto storico attraverso un azionariato popolare con il quale chiunque può mettere a disposizione una quota. Una vera e propria community supported agriculture del formaggio in cui il consumatore, sostenendo finanziariamente l’impresa, si trasforma in coproduttore. A Cheese gli stessi casari, primi “azionisti” dell’iniziativa, presentano al pubblico i progetti per la crescita della produzione e dell’invecchiamento del bitto e per lo sviluppo del territorio e del turismo nelle vallate.
A me l'onore di spiegare ai potenziali coproduttori del Bitto storico come si fa a partecipare all'azionariato popolare. Per gli interessati vi sarà la possibilità di compilare i moduli di prenotazione delle quote azionarie della società etica che rappresenta il braccio operativo del Consorzio salvaguardia del Bitto storico (da non confondere con il Consorzio ufficiale CTCB contro cui si è sviluppata la ribellione). Notizie più dettagliate le trovate già nell'articoloDecolla l'azionariato popolare per il Bitto storico . Anticipo che è sufficiente un versamento di 150€ (la taglia delle quote) per diventare azionisti etici del Bitto storico. L'aumento di capitale sarà deciso tra qualche settimana e tutti coloro che hanno prenotato le azioni diventeranno a tutt gli effetti soci. Naturalmente sarò anche a disposizione di tutti coloro che vogliono saperne di più sul Bitto storico, sulla sua storia antica e recente. È un grande onore per me essere il consulente culturale (a titolo volontario) dei ribelli e spero che molti di voi si uniranno a me nel ruolo di Paladini del Bitto storico (stiamo formalizzando anche una associazione culturale con questo nome).


I ribelli sono ora un libro

L'idea covava nella testa da parecchio (non anticipo quanto scritto nell'introduzione). C'era il titolo e la condivisione da parte di Slow Food. Vuole essere una cronistoria e un racconto di parte ma senza rinunciare al rigore dell'opera documentata. Forse qualche passaggio è un po' da saggio accademico ma nel complesso credo che pulsi la passione e mi auguro che questa passione sia contagiosa. Per ora mi limito a presentarlo con le parle di Piero Sardo (sotto la Prefazione). Dopo Bra pubblicherò l'Introduzione.

Testi: Michele Corti
Titolo: I ribelli del bitto. Quando una tradizione casearia diventa eversiva
Collana: asSaggi
Prezzo: 14,50 euro - prezzo soci Slow Food 11,50 euro
Pagine: 192
Formato: 13x21
La presentazione avverrà in anteprima il giorno 17 settembre alle ore 17 presso il Caffè letterario e musicale nel cortile di Slow Food editore, durante la manifestazione Cheese. L'indirizzo è via della Mendicità Istruita 45, BRA (Cn) (vedi punto 12 in mappa)
La ribellione anima un’intera comunità che si riconosce attorno a una specificità negata in nome della standardizzazione
Ne parlano:
Michele Corti, docente universitario, blogger, ruralista e autore del libro
Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità
Con la partecipazione dei produttori del Bitto storico
L’assaggio: il bitto storico degli alpeggi ribelli delle Orobie occidentali: valle del Bitto (So), dalta val Brembana (Bg) e alta val Varrone (Lc) - Presidio Slow Food


Non usa fare autorecensioni. Con piacere però riporto a presentazione del libro  la prefazione dell'amico Piero Sardo. Il ruolo di Piero nella vicenda è stato cruciale. Spero che emerga comunque dalla esposizione delle vicende del Bitto anche se Piero ha voluto che fosse ridimensionato il paragrafo che lo riguardava con considerazioni tratte da esperienze di prima mano, dalla mia testimonianza dall'interno della 'vicenda Bitto'. Non è frequente trovare che si comporta come Piero e in questa sede, e nelle occasioni in cui avrò la possibilità di farlo, ci tengo a farlo sapere.

Prefazione di Piero Sardo a "I ribelli del bitto"

Perché lo fanno? Perché questo gruppo di malgari valtellinesi da anni si rifiuta di assecondare le indicazioni delle istituzioni – consorzi, assessorati, sindaci, ministero – e rivendica orgogliosamente la sua diversità? Sarà questa la domanda che vi porrete quando avrete letto le pagine di questo libro, quando avrete seguito capitolo per capitolo gli eventi narrati da Michele Corti, le tappe di un decennale conflitto che è stato sintetizzato nel titolo I ribelli del bitto. Per lo meno è la domanda che io mi sono posto, non certo per dubitare della straordinaria valenza politica di questa battaglia, alla quale non posso che applaudire, ma per tentare di capire le opzioni psicologiche in gioco, le ragioni sociali di questa gente e di queste comunità.
Va detto che nella vicenda non sono neutrale: il rapporto che lega Slow Food ai ribelli del bitto è di antica data e di grande condivisione. Ma molti, moltissimi lettori meno coinvolti, invece, se la porranno la domanda, non tanto per capire, ma per dar sfogo, magari inconsciamente, alla solita italianissima dietrologia, all’immancabile «cosa c’è sotto?».
In questi anni abbiamo assistito a gesti di reazione assai più eclatanti di questa ribellione: operai su torri e ciminiere, digiuni devastanti, dissidenti che hanno sacrificato la vita per un’idea, giovani che sfidavano la repressione più violenta per manifestare il loro dissenso. Ma in questi casi i termini della questione erano chiari, era in gioco il lavoro, la libertà di espressione, la dignità sociale e politica: si poteva essere d’accordo o no con leproteste, ma non vi era dubbio sulle ragioni delle stesse.
Nella vicenda del bitto e dei suoi protagonisti le ragioni del conflitto sono chiare e il libro ben le sottolinea, ma la posta in gioco non pare così evidente. Loro continuerebbero comunque a fare i malgari, a produrre bitto come meglio credono, a venderlo alla sempre più folta schiera di appassionati e conoscitori, anche rientrando nei ranghi, anche accettando le regole che altri hanno dettato per questo antico formaggio. E infatti assessori e funzionari, ogni volta che si vedono respinte le proposte di mediazione, scuotono il capo un poco increduli: «cosa c’è sotto?».
Provo a spiegarla raccontandovi di mia nonna. Lo so, raccontare della famiglia è uno snodo usurato e retorico, ma l’esempio secondo me è calzante e aiuta a comprendere.
Mia nonna Nina era una cuoca straordinaria, cucinava un mix di piatti liguri e monferrini che non ho mai più ritrovato a tale livello di perfezione. Verdure ripiene, zuppe di legumi, torte verdi salate, agnolotti quadrati, gnocchi, coniglio al barbera, cima alla genovese, pollo alla cacciatora, subric, peperoni in salsa, batsoà e così via, per un ricettario magari non amplissimo, ma irresistibile. Tutti i giorni. Le materie prime erano direttamente sotto il suo controllo: viveva in campagna e allevava polli, faraone e conigli, coltivava l’orto, metteva via personalmente frutta, verdure, conserve di pomodoro. E decapitava oche, scuoiava conigli, tirava il collo a capponi con la pacata indifferenza tipica dei contadini e del loro duro, a volte crudele, rapporto con gli animali, anche se lei non era di famiglia contadina. Ma per cucinare bene le carni, diceva, gli animali bisogna ucciderli di persona, senza farli soffrire, senza trasportarli, senza spaventarli: così si capisce bene quanto vale quella carne e come bisogna cuocerla. Tant’è vero che a casa nostra si mangiava raramente carne bovina: perché arrivava da altre mani. E per far questo tutte le sante mattine era in piedi alle sei, estate e inverno, che dovesse cucinare per sé e suo marito o per venti, quanti eravamo nelle feste del paese fra figli e nipoti. Alle sei e mezza le pignatte erano sul fuoco e così per tutta la mattina era un andare e venire tra orto, pollaio e cucina. Lo ha fatto sino a ottant’anni, prescindendo da una ragione precisa: lo ha fatto perché era il suo modo di concepire la cura della casa, di preparare il cibo, la sua volontà di non cedere al supermercato, al pelato in scatola, ai filetti di pollo, all’insalata in sacchetto. Non era una ribellione, era un modo di essere, non aveva obiettivi da raggiungere. A volte eravamo noi, i parenti, a dirle: «rilassati, non è il caso, basta stare un poco assieme». Potreste addirittura giudicarla una forma di pacata follia, e forse lo era, ma per lei era nulla di più e nulla di meno di quel che andava fatto. E solo quando non abbiamo più potuto godere di quella cucina ci siamo resi conto di quanto avevamo perso. Mentre lei c’era e cucinava, a noi pareva la normalità avere quei piatti e a lei pareva normale fare come faceva.
Questa mia esperienza personale si lega alla vicenda del bitto storico perché l’unica spiegazione che può rendere conto dei comportamenti di Nina e dei ribelli si basa su motivazioni non economiche, ma direi – senza paura di esagerare – etiche. Il lavoro dei malgari, di questi malgari – tra i più duri per fatica fisica, impegno, tempo e competenze necessarie che oggi sia dato conoscere – sopravvive per ragioni essenzialmente culturali ed etiche. Certo, la remunerazione conta e ci mancherebbe: il bitto dei ribelli, grazie anche al lavoro di Paolo Ciapparelli e dell’Associazione, vale più del doppio del formaggio del Consorzio, e questo è importante per rinsaldare motivazioni e dettare strategie. Ma, come dicevo prima, potrebbero continuare a produrlo anche se fossero all’interno del Consorzio, anche se accettassero di sottostare a un disciplinare che non condividono. Anzi, potrebbero usufruire delle elargizioni che molti promettono, a patto che cessi il conflitto.
Non accettano di essere assimilati agli “accomodanti” – chiamiamoli così tanto per capirci – perché sanno benissimo che così facendo alla fine il loro destino sarebbe segnato. Ma gari non loro, ma chi verrà dopo di loro comincerà a chiedersi il perché di tanta fatica, le ragioni di tanta intransigenza, e comincerà a cedere, a usare fermenti e mangimi, ad abbassare la quota del latte caprino, ad abbandonare la caseificazione nei calécc: insomma a rinunciare piano piano alla monticazione tradizionale e al bitto storico.
Per evitare proprio questo probabilissimo cedimento, hanno deciso, da anni ormai, di fare di questa loro opzione una scelta di vita, un filo che lega un’intera comunità alla sua storia, al suo habitat, al suo futuro. Non è una pura e semplice questione di identità da preservare: troppe nefandezze vengono commesse nel mondo in nome dell’identità, del localismo cieco, del particolarismo. Basterà leggersi lo splendido libretto di Amin Maaluf, L’identità, per comprendere a fondo quanti pericoli si celino dietro questo concetto, che pure è sacrosanto rivendicare. Non vi diranno mai «noi siamo i puri, gli altri hanno venduto l’anima». Sanno benissimo che anche gli altri, gli accomodanti, vanno in alpeggio, faticano, credono nella tradizione, producono buoni formaggi: ma hanno fatto un passo indietro. Vi diranno: «noi facciamo così perché questo a noi pare il modo corretto di fare, perché questo è quanto facevano i nostri padri e i nostri nonni su queste montagne».
Ora, senza bitto storico si può certamente vivere, se ne può fare a meno. Come si può fare a meno di Mozart, delle chiese romaniche, di Thomas Mann: ma la deriva che innesca questo fare a meno può avere conseguenze catastrofiche, perdonatemi l’enfasi, per la nostra umanità, per la nostra civiltà. Se vi pare eccessivo, sicuramente avrà effetti deleteri per l’ambiente alpino e per l’eccellenza casearia. Vi pare poco? Mi auguro di no. Per Slow Food questa è una grande lezione, una fonte di ispirazione e di incoraggiamento, alla quale non siamo disposti a rinunciare senza lottare con i ribelli.

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