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sabato 23 aprile 2011

Bitto: una storia esemplare, una questione aperta (per saperne di più)

Il Bitto è un formaggio grasso d’alpe la cui grande qualità è attestata da almeno cinque secoli e che occupa nella storia del caseificio alpino un ruolo di primo piano insieme ad altri formaggi grassi quali Emmental, Bettelmat, Gruyère, Fontina, Montasio. Da alcuni anni, di fatto da quando nel 1993 è stata depositata la domanda di riconoscimento della D.O, concessa nel 1995, il Bitto è al centro di discussioni anche accese tra i sostenitori di opposte visioni della tipicità e, concretamente, della gestione dello strumento-opportunità offerto dalla Dop.


Da una parte vi è la visione produttivista-settorialista, incarnata da un soggetto istituzionale (il CTCB, ossia Consorzio Tutela Casera e Bitto), dall’altra quella ruralista-territorialista sostenuta dall’Associazione Produttori Valli del Bitto (oggi Consorzio salvaguardia Bitto storico). Le posizioni di questi attori sono emblematiche delle opposte posizioni sul ruolo delle attività agricole e agroalimentari, sottoposte – anche in montagna – alle opposte spinte ad un’(ulteriore) integrazione industriale o ad una auspicabile (ri)territorializzazione.


Da una parte vi è il blocco compatto degli “interessi settoriali”, guidato dalle maggiori strutture economiche - le grosse latterie del fondovalle - in stretta relazione con le agenzie amministrative, tecniche, burocratiche; dall’altra un’aggregazione su base localista, apparente fragile, di piccoli produttori agricoli, operatori economici locali che , però, ha saputo inserirsi in “reti lunghe” commerciali e socio-politiche stringendo alleanze con significative forze sociali al di fuori della realtà provinciale. Anche le amministrazioni comunali, che inizialmente avevano appoggiato o 'ribelli' sono state poi risucchiate nelle logiche della politica locale (e di quella deleteria arena di alleanze politiche e personali e di clientelismo che sono le Comunità Montana). E oggi sono schierate contro.




La vicenda del Bitto, in ogni caso, sarebbe da tempo chiusa e non contribuirebbe a mantenere vivo il dibattito sulle politiche della tipicità, se una serie di circostanze non gli avessero conferito una particolare rilevanza e risonanza, tanto da porla come “caso esemplare”, spesso citato dalla stampa nazionale. A tale proposito va messo in evidenza come, al traguardo del riconoscimento della D.O., il Bitto arriva solo nel 1995, quando già altre esperienze avevano messo in luce la scivolosità delle strategie produttivistiche, tese ad allargare le aree di produzione e ad allentare i vincoli dell’osservanza alle norme tradizionali di produzione sotto la spinta dei Consorzi di tutela e dei più grossi tra i produttori. Nel caso del Bitto, la già diffusa sensibilità intorno alla necessità di tutelare produzioni di nicchia, consacrate da uno storico riconoscimento di qualità e legate ad una precisa origine territoriale, si è scontrata con la palese forzatura tesa ad allargare a tavolino la zona di produzione all’intera provincia di Sondrio (comprendente le Comunità montane di Valchiavenna, Valtellina di Morbegno, Valtellina di Sondrio, Valtellina di Tirano e Alta Valtellna). Prima della Dop la zona di produzione comprendeva (secondo quanto attestato dalla stessa disciplina dell’uso del marchio “Valtellina”, promosso dalla Camera di Commercio di Sondrio) la sola Comunità Montana di Morbegno più alcuni comuni dell’antico “terziere di mezzo” (Comunità Montana di Sondrio). Tutto il formaggio grasso d’alpe prodotto fuori della zona del Bitto era denominato e contrassegnato come “Valtellina grasso d’alpe”.




L’allargamento comportava l’estensione della produzione del Bitto ad aree dove solo da pochissimi anni si era iniziato a produrre formaggio grasso sotto la spinta dello stesso Consorzio volontario e della Cooperativa produttori Bitto (ma anche delle istituzioni amministrative) che avevano inviato casari delle Valli del Bitto per “insegnare” le tecniche di lavorazione. Le conseguenze di tale forzatura non sono mai stata ricomposte perché, con gli anni, la maggior parte della produzione marchiata di Bitto è provenuta delle nuove zone di produzione, con una concentrazione della produzione stessa negli alpeggi dove si ricorre a fermenti selezionati e mangimi (pur non previsti dal disciplinare allora vigente e 'legalizzati' sono nel 2006).




Per molti di questi nuovi produttori di Bitto dop la pelure rossa ed il marchio a fuoco hanno significato un forte ed improvviso incremento del reddito dell’alpeggio che li ha incitati a modernizzarne sempre più la gestione, incoraggiati dal Consorzio e dalle varie agenzie tecnico-burocratiche (in prima fila l’Associazione Provinciale Allevatori) che, nel frattempo, additavano quali esempi negativi di ostinato passatismo i “nostalgici” che chiedevano il rispetto della tradizione produttiva, opponendosi alla legittimazione dell’uso di fermenti selezionati e di alimenti concentrati. Ma questa 'pacchia' è durata poco. L'aumento della produzione e la diminuzione contestuale della qualità hanno 'bloccato' il mercato e ridimensionato la redditività della produzione tanto che diversi produttori hanno rinunciato a produrre Bitto e il Consorzio ha visto ridursi con gli anni gli aderenti.




L’altro aspetto che ha determinato un situazione di contrasto insanabile è rappresentato dal controllo esercitato sul Consorzio dalle grosse latterie cooperative del fondovalle; esse partecipano al Consorzio in quanto produttrici di Casera Valtellina – il “parente invernale” del Bitto, prodotto in quantitativi dieci volte superiori a quest’ultimo - e detengono una solida maggioranza grazie ai voti dei loro soci (oltre un migliaio) che figurano, in quanto aderenti alle coop, quali membri del Consorzio di Tutela del Casera e Bitto. In più le grosse latterie operano la stagionatura del Bitto conferito loro alla fine dell’alpeggio, controllandone il mercato insieme ad alcuni stagionatori privati.


Per le grosse latterie il Bitto ha un ruolo commerciale ben preciso: agevolare la vendita del prodotto principale (Casera) alla grande distribuzione ed agli acquirenti esteri. L’immagine tradizionale del Bitto, comprese quelle espressioni di “arretratezza” stigmatizzate in sede “tecnica”, torna utile nella comunicazione commerciale. Fatta salva la facciata “folkloristica” il Consorzio sostiene che l’alpeggio deve adattarsi alle esigenze degli allevamenti specializzati del fondovalle con capi sempre più “selezionati” e dalla crescente potenzialità produttiva (una linea ovviamente in sintonia con l’Associazione Provinciale Allevatori).




Le conseguenti richieste di modifica del vecchio disciplinare hanno legittimato l’uso degli alimenti concentrati ad integrazione del pascolo e l’aggiunta di fermenti selezionati al latte. Come “compensazione” per gli alpeggi che non possono dotarsi di sale di mungitura o di altri sistemi di mungitura meccanica, dove non arrivano strade camionabili per trasportare i mangimi, ma dove il latte viene lavorato immediatamente dopo la mungitura e dove le poche forme prodotte sono trattate con cura, avranno la possibilità, se lo riterranno opportuno, di rinunciare a fermenti selezionati e mangimi in cambio dell’applicazione del nome dell’alpeggio oltre al marchio del Consorzio. Questa forma di “distinzione”, però, non solo non equivale ad una sottodenominazione, ma è del tutto slegata dalla localizzazione. Dal momento che erano i produttori dell’area storica che reclamavano il riconoscimento di norme di produzione più restrittive, ma nel contesto del riconoscimento di una sottozona di produzione, la 'distinzione' rappresentata dal nome dell'alpeggio non risolve nulla e i produttori storici continueranno a restare fuori dal Consorzio con il risultato che per anni il Bitto Dop è stato prodotto e marchiato come tale da Medesimo a Livigno tranne che nelle Valli del Bitto (se si eccettua qualche produttore che a causa si 'pressioni' da parte del 'sistema' è stato indotto ad abbandonare i 'ribelli' e a rientrare nei ranghi). Su queste basi, grazie alla caparbietà dell’Associazione Produttori Valli del Bitto (ora Consorzio salvaguardia Bitto storico) e al sostegno di Slow Food che ha consentito il contatto tra mondi molto diversi, ma in grado di collaborare efficacemente, la “questione Bitto” resta oggi più aperta che mai




A differenza di chi dalle parti del Consorzio e dintorni desidera che di queste faccende si discuta solo tra “addetti ai lavori” - ovvero all’interno delle cerchie tecnocratiche - riteniamo, che sia indispensabile allargare il più possibile la discussione riconoscendole apertamente il carattere politico (nel senso di riconoscimento della rilevanza per l’interesse comune e del carattere non socialmente neutrale delle questioni sul tappeto). E’un’occasione per dare voce agli interessi diffusi dei piccoli produttori rurali, di in montagna vive 365 giorni all’anno, di chi ama frequentarla in modo non consumistico, di chi vuole gustare formaggi speciali con una storia dentro.

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